Il Gufo Rosa

Il Gufo Rosa
Sui libri digitali e non (e altre diavolerie)

28 febbraio 2012

It just works

L'abbiamo chiamata sacerdotessa perché in questo periodo di transizione e grande smarrimento lei fa le "conversioni". E tra una conversione e l'altra le capita di imbattersi in strane storie che vedono quali protagonisti: InDesign, le font e i file epub. 


Dopo avervi illustrato alcuni problemi con iBooks... eccone un altro!

Era una notte buia e tempestosa, fuori imperversava una tempesta di neve e io mi trovavo come sempre immersa nei miei intrugli con gli ossi di pollo: inDesign, epub, CSS e codici.
Ma quella notte qualcosa andò storto, la creatura nata assunse una forma mostruosa: ahimé sfogliando le pagine del libro su iPad si ripeteva quando due, quando tre, quattro volte, l’ultima pagina di ogni capitolo.
Me tapina, me sventurata! Che sciagura, quale dannazione, rovinoso nefasto destino! No, troppo facile dare la colpa al destino, dovevo farmi venire un’idea, ma quale?!
Il vento soffiava, la neve cominciava a formare alti cumuli; la corrente era saltata e all’improvviso mi ritrovai a vagare nell’oscurità.
Poi una voce profonda, tuonante, proveniente da non so dire quale angolo della stanza mi pose questa domanda:

— Sacerdotessa, qual è il più grosso problema nel fare libri?
D’impulso risposi:
— Dopo Word, le font.

Il vento si era calmato, nell’oscurità riuscii a trovare una candela. Avevo centrato in pieno!
E ora? Come si fa a fare un libro per iBooks senza font? Non si nota nemmeno la distinzione fra font graziati e senza grazie. Il problema non si poteva risolvere togliendole.
Facciamo un piccolo passo indietro: prima che iniziasse a nevicare, avevo inserito nella cartellina META-INF del mio epub il documento com.apple.ibooks.display-options.xml con al suo interno il codice: <option name="specified-fonts">true</option> in modo che il mio iPad potesse riconoscere le font che avevo pensato e scelto per il libro.
Le font si trovavano di già nel file epub, più precisamente all’interno della cartellina “fonts” che inDesign crea con l’esportazione.
Mi feci coraggio, accesi il cero e tolsi sia il documento xml che la cartellina “fonts”. Ora le pagine non si duplicavano più!
Vittoria di Pirro. A me le font servono!

Creai una nuova cartellina “fonts” all’interno del file epub e vi trascinai le stesse font prese direttamente dalla cartella di sistema. Con un ultimo sforzo misi il documento com.apple.ibooks.display-options.xml di nuovo al suo posto.
Stremata e ormai sopraffatta dall’angoscia cominciai a sfogliare il mio ebook: le pagine duplicate in fondo ai capitoli non c’erano più. Perché mi domandai, per quale motivo? Di chi è la colpa? Di iBooks, di inDesign? Quando stavo per partire con improperi e catene di maledizioni contro l’uno e contro l’altro, la luce tornò e di nuovo sentii la profonda voce tuonare:

It just works.


La sacerdotessa-editor E.

22 febbraio 2012

Applicazioni a gogo

Il mucchio selvaggio dell’app economy raccontato e analizzato dal signor Mac Buck.


La milionesima applicazione
L’11 dicembre 2011 il New York Times ha annunciato la pubblicazione della milionesima applicazione per un dispositivo mobile in questo modo: «Ogni settimana nel mondo escono 100 film, 250 libri e ben 15.000 applicazioni per dispositivi mobili. Ogni giorno vedono la luce 543 applicazioni per Android e 745 per Apple iOS». Durante la settimana di Natale 2011 sono state scaricate un miliardo e 200 milioni applicazioni secondo Flurry, che analizza le tendenze del mercato mobile. Poco meno della metà sono state scaricare dagli USA (ben 510 milioni di unità) seguono molto distanziate la Cina con 100 milioni e il Regno Unito con 80. Francia e Germania guidano ex-aequo la classifica dell’Europa continentale con 40 milioni di applicazioni scaricate seguite dall’Italia con 25 milioni che fa meglio del Giappone, un paese dove il fenomeno si è sviluppato di meno di quanto si potrebbe pensare.


Il grafico dei download di app durante la settimana natalizia elaborato da Flurry è una fonte capitale per comprendere la dimensione del mercato delle app in particolare nei paesi di cultura e tradizione anglo-sassone. Un dato diffuso sempre da Flurry è ancora più importante delle brute metriche sui download delle app: la gente trascorre più tempo all’interno delle applicazioni che sul web. Flurry stima in un’ora e mezzo al giorno il tempo medio dedicato a consultare le applicazioni contro un’ora e 12 minuti passato sul browser per navigare in Internet.


In appena un anno si sono capovolti i rapporti di forza tra il web e le applicazioni sull’indicatore più pesante per misurare un trend, quello appunto del tempo dedicato a un’attività. Anche relativamente al traffico dati sulla rete il mobile è in fuga: il 55% viene generato proprio da dispositivi mobili contro il 45% da portatili e dei computer da scrivania.
Una cornucopia di applicazioni, quindi. Nel valutare questo sbalorditivo fenomeno, occorre considerare che prima del 10 luglio 2008, giorno di apertura dell’AppStore, niente di questo neppure esisteva. Già Palm con la versione Palm OS 5.2, nel lontano 2002, aveva reso possibile lo sviluppo di applicazioni di terze parti sul proprio sistema, aprendo, come in molti altri casi, la strada a questa grande innovazione. Era stato però con Facebook, già dal maggio 2007, che l’idea di una piattaforma sulla quale creare un ecosistema di applicazioni aveva assunto dimensioni ragguardevoli contribuendo a farne quell’enorme recinto di servizi e relazioni che è oggi. Deloitte ha valutato che l’economia delle app sulla piattaforma Facebook abbia prodotto nei paesi dell’Unione europea un valore di oltre 2 miliardi di euro con un contribuito rilevante all’occupazione giovanile delle claudicanti economie europee. TechNet, un’organizzazione di lobbying su temi tecnologici, ha stimato in 500 mila posti di lavoro il contributo dell’economia della app al mercato del lavoro USA: succo di acero per l’amministrazione Obama, in crisi di risultati su questo fronte.
Alla luce di questa timeline e di questi dati, in verità da prendere con lunghe pinze, è veramente strabiliante quello che è accaduto nell’arco di pochi anni anche per i connotati economici che ha già assunto. Nel 2015 la spesa in applicazioni varrà 35 miliardi di dollari con un CAGR 2011-2015 del 38%. Gartner alza la stima a 58 miliardi. Si può quindi parlare a tutti gli effetti di economia delle app e di un vero e proprio comparto E&M. Infatti questa evoluzione ha un’enorme importanza per l’industria dello spettacolo e dei media perché grande parte delle applicazioni offre soluzioni per consumare prodotti di questo tipo come prova il grafico sulla distribuzione delle app per categoria merceologica.


Tutto bene allora?
No, affatto! La «crescita esplosiva dell’app economy», per usare le parole degli esperti di PricewaterhouseCoopers, non è scevra da altri giganteschi problemi strutturali: il mercato delle applicazioni è frammentato, gli store di app sono dei bazaar e l’assenza d’interoperabilità tra le varie piattaforme costringe gli editori a produrre differenti versioni per ogni applicazione.



Inoltre questo nuovo mercato sussume e amplifica tutte le logiche negative degli altri mercati digitali come:

  1. la concorrenza accanita e brutale che innalzata enormemente le barriere d’ingresso penalizzando le start-up e gli sviluppatori a vantaggio dei soggetti che hanno maggiori risorse per proporre app con un’accresciuta “user experience”. Tutto sta nel riuscire a farsi ascoltare sopra un assordante rumore di fondo. 
  2. la rapidissima migrazione degli utenti verso nuovi gusti che accresce il tasso di rotazione delle classifiche con conseguente perdita di visibilità, declino nei download e riduzione delle aspettative di vita delle app a quelle di un bruco;
  3. la tendenziale irrilevanza dei brand che cede lo scettro alla nozione di “user experience” nella reminiscenza degli utenti;
  4. la diluizione dei contenuti di qualità con quelli triviali, un fenomeno dalle conseguenze profonde che potremmo iscrivere in una deriva post-pop il cui Andy Wahrol si deve ancora vedere;
  5. le bande di detrattori professionisti e di recensori prezzolati che alterano il genuino giudizio del pubblico sul valore delle app; 
  6. lo strapotere dell’utente che con un segno del pollice può decidere la sorte del prodotto come l’imperatore Commodo quello dei gladiatori che combattevano nell’arena sognando un nuovo Spartaco. 

Per gli editori/gladiatori, e ce ne sono 135 mila solo negli USA secondo il sito specializzato 148apps.biz, la vita è dura se non impossibile, ma c’è un vantaggio che non deve sfuggirli nella frustrazione del momento: possono decidere un prezzo per i contenuti e, anche se devono spartirlo con la piattaforma, gli è stata restituita la speranza di fuggire dalla logica del “gratis e basta” che vige sul web. «Uno dei lasciti di Steve Jobs e di averci insegnato a pagare per i contenuti» afferma Adam Bird, direttore di McKinsey & Company. E non è un caso che questa rivoluzione l’abbia avviata proprio il compianto co-fondatore di Apple. Non si fanno comunque dei grandissimi affari con le app a pagamento. Su AppStore, che è la piattaforma di gran lunga più redditizia, il 91% delle app costa meno di 5 dollari e per fare un fatturato ragionevole occorre farle scaricare decine di migliaia di volte.

Tante apps, pochi vincitori
«Con l’offerta mondiale di applicazioni in crescita esponenziale, la parte acquistata o scaricata da qualcun’altro che non sia lo sviluppatore e i propri familiari può divenire ancor più esigua. Anche restringendo le analisi alle applicazioni prodotte da brand famosi, solo il 20% sono scaricate più di mille volte». Solo l’uno per cento di queste ultime può vantare più di un milione di download. Questa è la sentenza piuttosto dura degli esperti di Deloitte sull’ecosistema delle applicazioni per mobile contenuta in un report dal titolo sconcertante “So many apps — so little to download, che segue un rapporto precedente anch’esso piuttosto avvilente “Killer Apps? Appearance isn’t everything”. Le app gratuite restano all’apice del gradimento degli utenti e nel 2011 hanno totalizzato il 96% dei download seconda una indagine condotta da IHS iSuppli, una società di consulenza nel campo della comunicazione. Gartner valuta in 81% la quota di downolad delle app gratuite.
Anche gli sviluppatori indipendenti e gli editori, che hanno abbracciato con ammirevole entusiasmo questo nuovo mercato, si sono resi conto che il cammino è in salita piuttosto che in discesa e che far scaricare un’app, foss’anche gratuita per non parlare di pagare, può essere uno sforzo di Sisifo. Più il catalogo delle applicazioni cresce più incolmabile diviene il distacco tra pochi blockbuster in fuga e il gruppone dei gregari che insegue affannosamente. Malgrado questa situazione che colpisce i produttori, paradossalmente, il numero di applicazioni continuerà a crescere: nel 2012 saranno 2 milioni e nel 2013 il catalogo potrebbe raggiungere i 4 milioni. Questa crescita è trainata dalle aspettative generate dalla crescita stellare dei dispositivi mobili, dall’arrivo di nuovi sistemi operativi introdotti da player robusti, dalla domanda dei paesi emergenti e dalla necessità di alimentare di contenuti il mercato degli smartphone da 100 dollari che andranno a sostituire i telefonini basici in uno spazio brevissimo di tempo.
A questo proposito scrivono gli esperti di Deloitte: «Per raggiungere il 90% degli utenti, uno sviluppatore dovrà creare una specifica versione dell’applicazione per ognuno dei cinque sistemi operativi (più HTML5), nelle cinque principali lingue, per almeno tre distinte prestazioni del processore e per quattro diverse dimensioni dello schermo. Detto altrimenti, saranno necessarie 360 varianti della stessa applicazione per coprire dignitosamente il mercato globale. Ciascuna variante conterà come un’applicazione a sé stante». Non è uno scherzo!
Nei mercati maturi delle app i costi di produzione e di marketing (senza considerare i diritti) di un’applicazione sono enormemente cresciuti nel 2011 e saliranno ulteriormente nel 2012 con punte che possono arrivare a sfiorare le sette cifre, tanto il Wall Street Journal ha valutato il costo dell’applicazione gratuita per iPad “Sting25” che celebra fastosamente i 25 anni di attività del cantante con lo scopo di rilanciare il suo intero catalogo. I tempi eroici dello sviluppatore che scrive la propria app tra la mezzanotte e le sei del mattino e questa finisce tra le prime 10 in classifica sono finiti, come l’epico west è scomparso con la ferrovia. Il mercato è divenuto professionale e sempre più dominato dalle organizzazioni che controllano i contenuti e hanno capacità d’investimento per ottenere l’attenzione dei consumatori. Il modello dello sviluppatore solitario chino al tavolo della cucina potrebbe ancora funzionare nei mercati in via di sviluppo dove l’ecosistema è ancora nella sua infanzia.

Perché il 90% delle app sono un flop?
La carestia dei download non significa che il modello di business delle applicazioni è fallace o non sostenibile, significa una cosa diversa. Non foss’altro che abbiamo già alcuni fortunati “millionaire” (per il bi- occorre aspettare ancora un po’) dell’ecosistema apps e molti altri hanno già acquistato una Porsche Carrera nera a rate. Significa piuttosto che il modello di business nei mercati maturi, come lo è anche l’Italia, è quello di Hollywood o del poker, il vincitore prende tutto il piatto delle banconote, agli altri spartiscono le monetine. Se il prodotto non funziona nella prima settimana, ma si potrebbe dire nelle prime 48 ore, di uscita non ci sono più assi da giocare. Un meccanismo che gli studios di Hollywood conoscono molto bene. «The winner take it all/The loser standing small … No more ace to play» dice una canzone degli Abba, reinterpretata da Meryl Streep in Mamma Mia, che potrebbe divenire l’inno dell’app economy.
È questa la natura dei mercati digitali dei contenuti dalla musica, al video, ai film, ai talk show. I consumatori vanno dove vanno tutti spinti dai trend che rimbalzano da un blog all’altro dai circoli degli amici e dal porta a porta del chiacchiericcio globale: un conformismo atroce e fors’anche inevitabile di fronte alla vastità dell’offerta. Purtroppo il conformismo è una minaccia maggiore dei derivati finanziari. In questo contesto perde senso anche una teoria consolidata e rassicurante come quella della coda lunga. In questi mercati non c’è nessuna coda lunga: l’80% dei brani musicali non ottiene neppure un download e la stessa cosa succede con le applicazioni, anche se non è possibile ancora dimostrarlo con metriche attendibili.
Perché tante app non riescono ad attrarre alcuna attenzione? La qualità è la prima ragione. Gli utenti si aspettano applicazioni che utilizzino appieno le capacità tecnologiche e le specificità di un device mobile come la gestualità, la voce, il GPS, la videocamera, l’accelerometro, la bussola. Molto spesso vi si ritrovano invece contenuti e modalità traslati dal web o da altrove senza troppe mediazioni e senza alcuna valida implementazione. Il fatto di disporre di un contenuto o di un servizio sempre con sé, nella propria tasca, è un valore importante ma da solo non è più sufficiente senza una più evoluta “user experience”. Anche i device mobili, come gli altri media, hanno sviluppo un proprio linguaggio che si è affrancato dal web come il cinema delle origini si affrancò dal teatro grazie a Georges Méliès. Gli esperti di Deloitte hanno rilevato che l’uso estensivo delle specificità di questi dispositivi può aumentare significativamente le possibilità di successo di un’applicazione. Questo grafico mostra quali fattori possono contribuire a rendere più invitante l’applicazione e di conseguenza determinarne il successo.


La seconda ragione, ci fa sapere Deloitte, è che molte applicazioni mancano il target per il semplice fatto che neppure si pongono il problema. Faccenda inconcepibile il qualsiasi altro mercato. I dispositivi iOS sono in mano a professionisti, colletti bianchi e, non foss’altro per il brainwashing, a persone che pensano di essere un po’ speciali. Confezionare un’app che non centra questo bersaglio, vuol dire disperderla nel mucchio, senz’altro selvaggio. Ecco che cosa scrivono gli esperti di Deloitte a questo proposito: «Bisogna trattare ogni piattaforma come un differente canale, con differenti livelli di coinvolgimento e di demografia e tenere l’orecchio sul terreno per cogliere l’arrivo di novità tecnologiche».
Orecchio sul terreno dunque per sentire arrivare in tempo utile il mucchio selvaggio come il capo indiano in Balla coi lupi. Bisogna avere l’orecchio dentro al secchio.

Il signor Mac Buck


14 febbraio 2012

Facebook. Il vuoto d’aria della privacy

Dove ci porta oggi il signor Mac Buck? Nel cuore dell'impero, di napoleonica memoria.

Facebook entrerà a giorni nello stretto novero delle società con una capitalizzazione superiore a 100 miliardi di dollari. Come dice L’Economist varrà più di Boeing, il colosso che costruisce gli aerei che ci portano in giro per il mondo e che dà lavoro a 165.000 persone contro le 3000 di Facebook. La famiglia Zuckerberg, a cui il giovane Mark ha elargito azioni come Napoleone ha distribuito regni, entrerà nello stretto novero delle dinastie più facoltose della terra. Il papà di Mark, Edward, diventerà il dentista più ricco del globo. Se comprendiamo bene dove sta il valore di Boeing, Apple, Microsoft e anche Google (tutti vendono qualcosa), per Facebook è più difficile. Forse sono gli 850 milioni di frequentatori a dargli un valore così elevato? A dire il vero questi sono meri numeri, seppur pesanti: la grande popolazione di una nazione non ne fa automaticamente una potenza economica. È solo un potenziale.

Le persone che vanno su Facebook non acquistano niente, neanche un drink, vengono, sporcano e se ne vanno senza lasciare un centesimo. Mantenerli costa una fortuna. Il valore di Facebook consiste nei dati che raccoglie sulle persone; informazioni private, comportamentali, hobby, preferenze, allusioni, consigli e relazioni. Tutto ciò che determina la sfera privata di una persona, la cosiddetta privacy, può essere conosciuto da Facebook. A un certo punto questi dati serviranno a qualcosa, probabilmente ai pubblicitari per confezionare delle azioni di marketing mirato da rivolgere sulla piattaforma Facebook agli utenti che soddisfano un certo profilo demografico o comportamentale. Per ora è il modo più facile di fare dei soldi con questo grande ambaradan del social. La decisione di quotarsi in borsa non lascia molta scelta a Facebook a meno di inventare, e senz’altro ci riuscirà, nuovi strumenti per remunerare i propri azionisti. Facebook deve accelerare subito tutti gli aspetti della sua attività che producono denaro. Tale intento spiega la messe di annunci, alla vigilia della quotazione in borsa, rivolti agli investitori e provenienti dagli investitori. Facebook sta vivendo con una certa apprensione questa prova dei fatti economici e ha già messo le mani avanti; per esempio sta dicendo a chi sa ascoltare: «stiamo preparando una soluzione per il mobile marketing, ma non sappiamo se funzionerà». È come dire, state attenti a dove mettete i soldi? Invece tutti si aspettano qualcosa di eclatante e questo meccanismo all’insù renderà gli executive di Facebook voraci, come lo sono diventati quelli di Google dopo aver distribuito la minestra alla mensa dei poveri.

La vicenda di Facebook non è però così grevemente economica e come tutte le manifestazioni importanti dell’attività umana ha la sua dialettica interna. La squarciante modernità della lettera agli investitori di Mark Zuckerberg dal titolo “The Hacker way”, che riecheggia il Manifesto del futurismo di Marinetti pubblicato un secolo fa, indubbiamente riflette lo “Spirito del tempo”. La contraddizione tra “cattivo” e “buono” di Facebook ha portato e porterà molti problemi. Ammettiamo anche, come sottintende Facebook, che molti utenti non si curano troppo di permettere o impedire a un database di tracciare i loro comportamenti e di strutturarli in un dossier personale – comprese le loro relazioni extramatrimoniali – purché possano continuare a stare gratis sul social network. Ammettiamo anche che scoprirsi oggetto di attenzioni e interesse può essere rassicurante in un mondo di solitudine e d’indifferenza e ipotizziamo pure che ricevere suggerimenti non richiesti su qualcosa che ci sta a cuore sia abbastanza tollerabile se si è dormito bene, anche se in altre circostanze può veramente infastidire. Ammettendo tutto ciò e anche riconoscendo che la percezione del problema da parte di tanti utenti può essere debole di fronte al glamour di Facebook, la questione della privacy è qualcosa di molto serio per l’opinione pubblica e i governi.

Contro la social intelligence di Facebook non combattono idealmente solo i militanti fattualisti delle fantasmagoriche teorie sul Controllo di William S. Borroughs. Combattono molti altri e assai di più dimostrano una crescente ansietà. Uno studente di legge di Salisburgo ha chiesto a Facebook di riavere indietro il proprio dossier e si è visto recapitare un file di 1222 pagine, dove ci sono informazioni che neppure ricordava. Su questa scia altre 40 mila persone, che si sono coordinate nel movimento “Europa contro Facebook”, hanno chiesto la distruzione dei loro dati. Un professore di legge di Chicago ha scritto un libro dall’esplicito titolo “I Know Who You Are and I Saw What You Did: Social Network and the Death of Privacy” che sta sulla scrivania dei commissari e dei regolatori europei. Tutto questo brusio costringerà Facebook a un piccolo-grande aggiustamento, suggerito costantemente dall’Economist: cambiare l’opzione di default della Timeline sull’uso dei dati personali da “sì” a “no”. Dovrà essere l’utente ad autorizzare la raccolta e l’utilizzo dei propri dati, non l’automatismo della registrazione. E c’è da scommettere che agli utenti verranno altri appetiti a seguito di questo piccolo clic su un “sì”, come quello, per esempio, di chiedere dei benefici per non ripensarci o semplicemente per spostare una crocetta. L’effetto leva si trasferisce così dalle mani del social network a quello degli utenti.

Per Facebook significa scoperchiare il vaso di Pandora.
«Ottenere il permesso per forme più personali di marketing sarà cruciale se Facebook vuole evitare di far arrabbiare gli utenti  – dice Alexandre Mars di Publicis, la seconda agenzia pubblicitaria del mondo – Sanno un sacco di cose su di noi. Come e quando inizieranno ad usarle e se voi sarete contenti o irritati da ciò, è la loro vera sfida».
Chiedere il permesso, da persone educate, è un piccolo passo che calmerebbe il brusio ma che potrebbe costare diversi punti in borsa e, alla lunga, una ridefinizione del modello di business. Il che non è senz’altro male, perché allontana Facebook da un modello monolitico seppur subdolamente redditizio dal quale neppure Google è riuscito a staccarsi e che ora comincia a stargli parecchio stretto anche per colpa di Facebook, il nuovo Alessandro Magno, distruttore d’imperi.

Il signor Mac Buck

4 febbraio 2012

iBooks Author e i colli di bottiglia dell'ecosistema Apple

Tra le novità made in Cupertino presentate lo scorso 19 gennaio a New York, iBooks Author, il software Apple che consente facilmente all'utente di creare libri di testo interattivi e multimediali, è quello che ha riscosso maggiori entusiasmi e critiche.
Sugli entusiasmi non mi soffermo, sono chiaramente dovuti alla possibilità per molti utenti di realizzare in modo semplice pubblicazioni digitali a supporto della didattica e alla conseguente promessa che questo riduca il prezzo dei libri di testo ampliandone l'offerta. Le critiche invece meritano una più ampia disamina.

Il formato proprietario

I textbooks creati con iBooks Author non sono in formato ePub, lo standard aperto più diffuso per le pubblicazioni digitali, ma nel formato proprietario ibooks, basato su ePub2 con alcune estensioni in HTML5 e JavaScript per poter arricchire il libro di elementi multimediali e maggiore interattività.
iBooks Author consente l'esportazione in PDF, non in ePub.
Se scegli la via del formato proprietario, la devi percorrere fino in fondo: i libri creati con iBooks Author possono essere letti unicamente mediante l'applicazione iBooks di Apple.
Per conoscere più nel dettaglio le specifiche del file .ibooks, vi consiglio di partire dall'analisi del Mennocchio.
Fin qui niente di nuovo sotto il sole. Beninteso, la questione dei formati non è né banale, né oziosa: uno standard aperto e condiviso, costantemente implementato e riconosciuto, e di cui è garantita l'interoperabilità tra software e hardware, è un bene a cui sia come produttori che come fruitori di contenuti digitali non siamo disposti a rinunciare; tuttavia, Amazon ci aveva già abituati a tenere in considerazione la presenza di formati proprietari.

L'accordo di licenza con l'utente finale

Maggiore scandalo ha suscitato invece l'EULA, l'accordo di licenza con l'utente finale, relativo all'uso del software: i libri creati con iBooks Author possono essere venduti solo ed esclusivamente attraverso l'iBookstore, dopo averli sottoposti all'approvazione di Apple.
Tale clausola era già stata giudicata inaccettabile e ridicola da diversi esperti nella sua formulazione iniziale. Apple è riuscita a peggiorarla.
Come riportato ieri da The Digital Reader, la versione iniziale recitava:
If you charge a fee for any book or other work you generate using this software (a “Work”), you may only sell or distribute such Work through Apple (e.g., through the iBookstore) and such distribution will be subject to a separate agreement with Apple.
Quella attuale invece:
If you want to charge a fee for a work that includes files in the .ibooks format generated using iBooks Author, you may only sell or distribute such work through Apple, and such distribution will be subject to a separate agreement with Apple. This restriction does not apply to the content of such works when distributed in a form that does not include files in the .ibooks format.
Semmai a qualche malizioso fosse venuto in mente di utilizzare alcuni file contenuti nel file .ibooks e generati quindi con iBooks Author per creare un libro digitale, magari di contenuto assai simile, in formato ePub e venderlo dove gli pare, beh, Apple ha messo le mani avanti per piantargli qualche grana.

Come ha spiegato bene l'avvocato Evan Brown consultato da Ars Technica, si tratta di una clausola sull'uso del software che limita l'uso dei libri con esso creati:
"The offending language in the iBooks Author EULA is a condition on the use of the software, sort of disguised as a condition on the use of the books that are created," Brown said. "Imagining how this might play out in a dispute reveals the nuance. Say a user makes her iBooks Author created work available for sale through some non-Apple platform. Would Apple sue, claiming that that book is infringing? Of course not—it would lose that lawsuit big time. Instead, Apple would claim that the use of iBooks Author to create that work violated this condition of the EULA, thus was beyond the scope of the EULA, and thus was infringement. Any lawsuit would be for infringement of the software, not of the book."
Il futuro dell'educazione non sta nei libri di testo

Tra le critiche più pungenti e prospettiche, vi è quella di Elena Favilli che nel suo blog su Il Post scrive (riporto alcuni stralci e consiglio di leggere il post per intero):
Se stai cercando nuova musica, giochi, video o altre forme d’intrattenimento che sono guidate principalmente dai gusti individuali, allora il potere della folla funziona sicuramente molto bene. Funziona bene sull’iTunes Store per tutto ciò che riguarda i contenuti pop, per esempio. Non funziona per niente, però, per tutti quei contenuti che si basano su un livello di conoscenza e competenza più alto. Aree come l’educazione e la salute, che sono di estrema importanza per tutta la popolazione ma di cui pochi non tutti hanno conoscenze adeguate, richiedono qualcosa di più della folla per prendere decisioni basate sulla qualità.
E più avanti:
Di strumenti per pubblicare contenuti siamo già pieni. Quello che manca è un modo per capire, in settori cruciali come quello dell’educazione, quali sono quelli di cui fidarsi. La content curation ha già dimostrato di funzionare molto bene nel giornalismo, dove il proliferare di contenuti di ogni tipo ha costretto i giornalisti a trasformarsi prima di tutto in designer, dj delle notizie. Ora è l’educazione il campo in cui più ce n’è bisogno.
Lo scenario è ancora aperto e non è da escludersi che Apple raddrizzi il tiro in corso d'opera, sebbene le ultime mosse relative all'accordo di licenza non sembrino andare in questo senso. È tuttavia possibile prevedere che se Apple vuol fare veramente breccia nel campo dell'educazione e indurre la "rivoluzione" promessa, dovrà aprire il suo sistema a pratiche meno vincolanti e sottoposte a rigido controllo, prima che ci pensi qualcun'altro.