Il Gufo Rosa

Il Gufo Rosa
Sui libri digitali e non (e altre diavolerie)

30 maggio 2012

Uno a molti. La nuova relazione digitale tra uomo e media

Immagine: Maurizio Galluzzo
Dove stiamo andando
In un tweet (in che altro modo sennò?) Daniel Ek, CEO dell’acclamatissimo Spotify, ha manifestato il proprio stupore di fronte al fatto che appena cinque anni fa non c’erano né Facebook né l’iPhone: “Queste due superpiattaforme sono alla base della maggior parte delle innovazioni che vediamo oggi”, dice twittando con 99 caratteri.
Verissimo!
Viene da chiedersi come questo cambiamento abbia influito sui comportamenti delle persone, su quello che, buffamente, si chiama “stile di vita digitale”. Non è un interrogativo da poco e neppure tanto astratto: ai comportamenti digitali è legato un giro d’affari vicino a quello generato dal petrolio, il sangue del pianeta.
Si tratta di informazioni vitali per gli editori di giornali che, poveretti, cercano di vendere sul mercato digitale un qualche contenuto: un’industria plurisecolare, quella editoriale, minacciata di estinzione come la tigre del Bengala o il rinoceronte sudafricano. Lo sono anche per chi lavora nella pubblicità, un settore economico da un trilione di dollari, che fa una gran fatica ad adattarsi al nuovo, come si vede bene nella commedia brillante In Good Company di Paul Weitz, con Dennis Quaid e una ventenne Scarlett Johansson. E l’happy end non è garantito come nel film!

Chiediamolo alla biometria
Si capisce perché Time Inc., che pubblica 130 periodici, abbia commissionato a Innerscope Research, una società di Boston che misura i coinvolgimenti emotivi con tecniche biometriche, uno studio dal bizzarro titolo “A Biometric Day in the Life”, che ha prodotto dei risultati interessanti (niente che non intuissimo già osservando i nostri comportamenti o quelli dei colleghi più giovani, ma qualche meraviglia è ugualmente lecita). Lo studio si prefigge di misurare con metodologie biometriche applicate per 300 ore a un campione di 30 individui l’influenza dei dispositivi mobili e delle piattaforme sulle abitudini di consumo dei prodotti media da parte dei nativi digitali e degli immigrati digitali. “Time” tiene a informarci che i nativi digitali sono “i consumatori cresciuti con le tecnologie digitali come parte integrante della loro esperienza di vita quotidiana”. Gli immigrati digitali, invece, “sono coloro che hanno conosciuto le tecnologie digitali da adulti” e, aggiungo, le hanno adottate per necessità o per scelta.
C’è adesso la sicurezza “biometrica” che l’influenza delle tecnologie mobili sui comportamenti digitali è enorme specialmente tra i primi, i nativi digitali. Le telecamere poste da Innerscope nelle abitazioni del campione selezionato e le rilevazioni biometriche hanno mostrato un comportamento piuttosto differente tra nativi digitali e immigrati, ma non così distante come molti commentatori si sono affrettati a scrivere. Ciò significa che il cambiamento sta veramente interessando tutta la popolazione del pianeta.

I nativi digitali
I nativi digitali sono oltremodo nomadi: in appena un’ora spostano ben 27 volte la loro attenzione da un dispositivo a un altro, da una piattaforma all’altra e da un’attività a un’altra: la concentrazione dura due minuti e qualche secondo (vedi grafico “Livello di concentrazione”). Questi soggetti, però, sono consumatori voraci di media: vi trascorrono il 71% del tempo non lavorativo (vedi il grafico sopra). Li utilizzano anche per regolare il loro umore: appena si annoiano con un contenuto rivolgono la loro attenzione a un altro contenuto o a un dispositivo differente. Un comportamento che richiama alla mente i famosi versi di Montale: La tua irrequietudine / mi fa pensare / agli uccelli di passo / che urtano ai fari / nelle sere tempestose (Dora Markus, Le Occasioni). In questo vagolare, come hanno notificato le reazioni cerebrali dei 15 giovani campionati, il coinvolgimento emotivo è quasi nullo. Si vede che tale nomadismo compulsivo porta allo stato esistenziale dell’atarassia, ricercato fin dall’antichità. Perché un contenuto abbia una qualche speranza di accendere una scintilla deve esaurire il proprio ciclo comunicativo in 2 minuti. E soprattutto deve avere un effetto stimolante sul cervello, come quello di un farmaco specializzato.


Si apprende poi, senza sorpresa, che il 65% dei nativi digitali non si separa mai dal proprio device, lo porta ovunque, anche in camera da letto e in bagno. Più della metà (54%) sembra preferire un messaggio a un contatto verbale. Ma questo già lo sapevamo.
In tutto questo c’è, però, dell’incredibile. Se tornassimo indietro con la macchina del tempo a cinque anni fa, troveremmo solamente due dispositivi dotati di uno schermo nelle nostre case: il personal computer e il televisore. O si usava uno o si usava l’altro, anche perché, in genere, si trovavano in stanze separate. Chi usava entrambi, e già ce n’erano, era considerato, benevolmente, o svitato o geniale.
Incredibile, ma non troppo. Reid Hoffman – fondatore di LinkedIn e homo siliconicus per eccellenza, con una somiglianza imbarazzante con il personaggio di Dennis Nedry di Jurassic Park – ha dichiarato di poter portare avanti, in contemporanea, fino a sette relazioni digitali spalmate sui vari device, di cui neppure lui riesce più a tenere il conto. D’altro canto, si racconta malignamente che l’appena scomparso presidente Gerald Ford, peraltro un ottimo presidente, non riuscisse a masticare una gomma e a emettere un peto senza che le due attività gli si mescolassero. Evoluzione della specie? Sicuramente, trattandosi di due eccellenze.

Gli immigrati digitali
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, gli immigrati digitali non sono per niente stanziali: in un’ora si spostano ben 17 volte da un dispositivo all’altro e da una piattaforma all’altra. Il tempo di esposizione sale a circa 4 minuti: c’è quindi spazio per una narrazione più estesa. Considerando che in un minuto si possono leggere circa 200 parole (pari a un migliaio di caratteri), un articolo medio di “Time” o dell’“Economist” ci sta a malapena. Questi grandi giornali hanno ancora qualcosa da asciugare. Per loro, però, i nativi digitali sono ormai perduti.
La separazione fisica dal proprio device genera ansia anche a questa generazione più matura. Il 41% lo vuole sempre a portata di mano e gli rivolge spessissimo la propria attenzione. Un’indagine sui consumatori americani, condotta nel dicembre 2011 da Nielsen, ha rilevato che il 45% usa regolarmente un device mentre guarda la TV. Con quello che trasmettono è più che logico!


Un aspetto che differenzia più significativamente gli immigrati dai nativi è che i primi sono lineari nel seguire una narrazione attraverso un inizio, uno svolgimento e una conclusione. I nativi invece tendono ad accedervi casualmente, paracadutandosi in un qualsiasi punto e poi muovendosi avanti e indietro senza troppo riguardo per la sequenza narrativa. Questo è un bell’indizio per gli scrittori e gli sceneggiatori. Si capisce perché i nostri ragazzi non riescono a leggere più di dieci pagine della grande narrativa europea dell’Ottocento.

In conclusione
“Non è di grande conforto apprendere che l’attenzione a un contenuto dura due minuti. È quasi impossibile perfino da immaginare” dice Besty Frank, responsabile dell’ufficio studi di “Time”, aggiungendo: “A noi produttori di contenuti e ai pubblicitari è inviato un messaggio chiaro: non dobbiamo metterci troppo ad arrivare al punto e dobbiamo farlo con qualcosa di emotivamente immediato”. S’intuisce facilmente che il cambiamento è enorme e va a toccare la ragion d’essere di questa industria nel mondo che sta andando oltre i mass-media, verso una sorta di personal-media.
Ci si può consolare con qualcosa? Sì.
Allo staff di Time Inc., che ha speso dei soldi per farsi dire che sono inutili, farà piacere apprendere che la stampa periodica continua a provocare una reazione emotiva superiore (con un percentuale di 64) rispetto a tutti gli altri media. Comunque lo staff di Time Inc. ha un bel lavoro di fronte a sé.
Anche noi italiani ci possiamo consolare. I nostri nativi sembrano diversi da quelli d’oltreatlantico.


Un’interessante indagine svolta dall’Associazione Italiana Editori ci dice che i nativi digitali italiani sono sì tecnologici, ma allo schermo preferiscono i libri di carta e la socializzazione avviene di persona. Del resto, da noi la stagione è quasi sempre buona e nevica raramente! Solo il 15% accede a un contenuto o a una piattaforma da più di tre device, anche se la metà degli intervistati dichiara di avere uno smartphone. Si direbbe che sono frenetici al punto giusto. Ai genitori, immigrati digitali per scelta o per necessità, farà senz’altro piacere.
In ogni caso, se in futuro avessimo ancora qualcosa da dire, lo dovremmo dire con una narrazione (possibilmente visuale) di due minuti, oppure dovremmo tacere per sempre.

Il signor Mac Buck

10 maggio 2012

Il Gufo Rosa spiegato a mia mamma


Mamma:  − Che hai fatto oggi?
Io: − Il Gufo Rosa.
− Chiiiii?
− Il Gufo Rosa.
− E che è?
− Se hai un po’ di tempo, te lo spiego.
− Devo cucinare, innaffiare in giardino e passare l’aspirapolvere. Parla.
− Vabbè, tanto non pretendevo che ti mettessi comoda. Partiamo dall’inizio.

Il Gufo Rosa è un gufo rosa, e fin qui non ci piove.
Il Gufo Rosa ha almeno 3 stranezze:
  • porta una maschera da sub
  • sta su dei trampoli
  • vive nello stagno di Valvermosa.
Quindi le domande che ci si pone su questo gufo sono: perché porta una maschera da sub? Perché ha dei trampoli? E perché vive in uno stagno piuttosto che starsene nel buco di un alberello?

Le risposte conducono verso una storia di accoglienza e integrazione da parte degli abitanti di una comunità: quella dei Piricotteri Rosa che vive nello stagno di Valvermosa che si trova nel Bosco delle Piccole Mirabolanti Avventure.
Ci sei?
− Sì, sto innaffiando le piante. Continua.

Ecco, a questo punto sorge un'altra domanda: perché e come ci è arrivato il gufo da quelle parti? Beh, qui le risposte si biforcano, o meglio si triforcano, perché ci sono almeno tre leggende sul Gufo Rosa:
  • la prima leggenda racconta che il Gufo Rosa divenuto grandicello si è messo in viaggio alla ricerca di qualcuno similmente diverso a lui o, con le parole del Gufo, di qualcuno R O S A come lui;
  • la seconda leggenda ci narra invece una storia di discriminazione; il Gufo Rosa è fuggito dal suo pianeta di origine perché tutti i gufi cercavano di sbiancarlo, non si davano pace del fatto che fosse rosa e non bianco come loro;
  • la terza leggenda ci fa sapere invece che il Gufo è stato adottato: la cicogna l'ha portato in una nuova famiglia che l'ha cresciuto come un figlio suo.
Quale di queste leggende è vera? Boh, nessuno nel Bosco delle Piccole Mirabolanti Avventure sa rispondere a questa domanda. E ti dirò di più. Nessuno nel Bosco delle Piccole Mirabolanti Avventure vuole rispondere a questa domanda. «Sono meglio tre leggende che un’unica storia vera!» dicono, e forse hanno proprio ragione.

− Ah, sì, e quindi tu che fai?
− Il Gufo Rosa ma’, vuoi che riniziamo daccapo?

Continua, forse.