Il Gufo Rosa

Il Gufo Rosa
Sui libri digitali e non (e altre diavolerie)

11 settembre 2012

Reinventarsi


I contenuti hanno ancora un valore economico per gli autori? Ce ne parla il signor Mac Buck in questo post settembrino.



Arance spremute
Non è mai stato facile vivere dignitosamente di arti liberali come la musica o la scrittura. Mozart è morto indigente ed è stato sepolto in una fossa comune nella fastosa Vienna del 1791, che pur lo riconosceva come il suo genio più grande. Cinquant’anni prima Voltaire, il più disincantato e mondano dei philosophes, non resistette più di tre anni al mecenatismo dispotico del suo illuminato protettore, Federico II, che diceva di lui: “Si spreme l'arancia e la buccia si butta via”. Nel 1709 Anna Stuart, prima regina del Regno Unito e ultima cattolica, per aiutare gli autori a sopravvivere nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte – senza gravare sul bilancio del Cancelliere dello Scacchiere – introdusse il principio del “copyright”, cioè il diritto degli autori a ricevere, per un periodo di 14 anni, un compenso ogni volta che una loro opera fosse stata riprodotta a stampa, rappresentata o copiata.
Questa piccola grande idea, codificata nello Statuto d’Anna e già attuata due secoli prima a Venezia e Firenze, ha funzionato fino al XXI secolo, rendendo straordinariamente ricchi un pugno di artisti e creativi e assicurando una dignitosa sopravvivenza a chi avesse un talento o una fortuna non proprio comune. Beninteso, si è trattato di un fenomeno d’élite: si calcola che negli Stati Uniti siano poche migliaia (intorno a tremila) gli artisti che vivono dei diritti d’autore.
Internet ha scardinato alle radici questo modello a tal punto che un guru come Seth Godin ha dichiarato che gli autori non possono più pretendere di essere pagati per il contenuto delle loro opere. Devono arrangiarsi diversamente. Si torna alle arance spremute? No, il modello potrebbe essere quello imprenditoriale di Albrecht Dürer, il “Raffaello” tedesco, prototipo del freelance secondo l’“Economist”.
Se guardiamo a ciò che è successo nella musica liquida – la testa di ponte dell’industria culturale nel territorio ostile del digitale – si capisce subito perché quella di Godin è più una presa d’atto che un paradosso.

Caccia grossa al cliente
Daniele Lepido su “Il Sole 24 Ore” – rielaborando alcuni dati di Digital Music News – ha calcolato quanti clienti deve trovare un musicista per ricavare un modesto stipendio di 1200 dollari al mese dai diritti d’autore. Ogni mese devono arrivare questi clienti o combinarsi frazioni di questi numeri:

a. 2320 CD (pubblicati da una casa musicale) acquistati al prezzo di 9,90$ [0,5$];
b. 14.500 download da iTunes [0,08$];
c. 23.200 download di suonerie per cellulare [0,05$];
d. 232.000 brani in streaming da Spotify [0,0005$].

In parentesi quadra il guadagno da unità di prodotto per l’artista, prima delle tasse che non sono solo in Italia.
Facciamo noi lo stesso calcolo per gli scrittori che si aspettano un ricavo di 1200 dollari al mese dai diritti d’autore. Per loro va un po’ meglio, ma non c’è granché da festeggiare. Ecco qua i clienti che devono arrivare:

a. 1000 libri acquistati al prezzo di copertina di 14,90$ [1,19$];
b. 805 download di ebook (pubblicati da un editore) al prezzo di copertina di 9,90$ [1,49$];
c. 1740 download di ebook autopubblicati al prezzo di copertina di 0,99$ [0,69$].

Il grafico che segue rende meglio l’idea di quanti clienti siano necessari per realizzare un guadagno di 1200$ al mese con i diritti d’autore.
Si tratta di numeri piuttosto impressionanti soprattutto per la musica, anche alla luce di due fattori che caratterizzano lo scenario digitale. Il primo è la sproporzionata eccedenza dell’offerta sulla domanda in conseguenza all’abbattimento di ogni barriera d’ingresso al mercato – un disallineamento, detto anche surplus cognitivo, per il quale non si intravede una soluzione, perché tende ad autoriprodursi. Per non parlare poi della pirateria, che allarga il canyon tra disponibile e venduto. Il secondo è che la produzione artistica non è, in alcun modo, un processo industriale e mai lo diventerà, con grande rammarico per gli editori e i produttori. Gli analisti di Goldman Sachs, la più grande banca d’investimento del mondo, riescono a fare proiezioni di vendita con scostamenti minimi per qualsiasi prodotto industriale eccetto che per i “prodotti” culturali: di fronte a un film, un album o un libro alzano bandiera bianca. I comportamenti dei “consumatori culturali” non sono riconducibili a modelli dentro un algoritmo. L’opera d’arte, dice Ingmar Bergman, è un’imprevedibile alchimia.
Torniamo allora alle tesi di Seth Godin, che non a caso è uno sciamano.



Seth Godin senza freni
Secondo Godin il cambiamento è così epocale che tocca reinventarsi come gli ibernati del pianeta delle scimmie che, al loro risveglio, trovano un mondo sconosciuto che si rivela essere quello da cui provengono. E, come nella finzione del film/romanzo, la realtà sembra non solo irriconoscibile, ma assume i contorni di un vero e proprio incubo. In questo nuovo/vecchio mondo non c’è modo di fare soldi con la scrittura o con altre arti liberali, precisa Godin. Il futuro sarà popolato da un grande numero di aspiranti artisti, e solo pochissimi tenaci talenti, come in un X Factor planetario, potranno uscire dall’oscurità e condurre una vita agiata. “Il tempo degli operai della parola è finito”, dice Godin. Ma perché gli autori non potranno più sperare di monetizzare le loro creazioni come hanno sempre fatto? Per il venir meno della “scarsità” che, come dice Clay Shirky, è molto più facile da gestire dell’abbondanza.
Nell’economia post-Gutenberg la riproduzione digitale di un bene immateriale come un film, una canzone o un libro può avvenire illimitatamente con un investimento trascurabile. Senza più alcun costo industriale o logistico, tutti saranno in grado di produrre un contenuto, diffonderlo e condividerlo. Il bisogno non incontrerà più la scarsità e il valore di scambio di questo bene tenderà a ridursi a zero. Quindi il “valore economico” di un artista non sta più nella quantità di copie che il suo editore/produttore riesce a vendere a un prezzo massimizzato, ma nelle idee e nella relazione che riesce a creare con il proprio pubblico e l’industria culturale; su questa relazione, in cui l’idea diventa il veicolo autoriale, potrà costruire un rapporto economico. In che modo? Ancora non si sa, ma un modo ci sarà. Il principio è: “Se hai idee, le rendi visibili e le condividi, qualcuno ti farà una proposta”. Il punto focale del valore, quindi, più che il contenuto stesso, diventa la relazione. Per questo il contenuto può anche “essere dato via”, se serve a costruire la relazione, e con la relazione l’autorialità e la reputazione.
Questo il ragionamento di Godin agli autori. E gli editori? Sembra proprio che siano nel film sbagliato, quello degli intermediari, che viaggino su veicoli con le ruote quadrate.

Seth non è da solo
Per la loro serena radicalità, le opinioni di Godin hanno suscitato un certo clamore. Gli editori lo hanno trattato come i troiani trattarono Cassandra.
Allo stesso modo di Godin la pensa Mathew Ingram, uno degli osservatori più autorevoli e onesti del fenomeno dei media all’epoca di Internet. Ha ragione Godin, dice Ingram: il clima è diventato piuttosto torrido per i professionisti dei contenuti. L’ascesa degli scrittori dilettanti, a seguito della democratizzazione della distribuzione attraverso il web e i social media, ha virtualmente cambiato la natura di ogni forma di contenuto “che deve essere convertito in bit”. Oggi siamo nell’epoca dell’autorialità distribuita, direbbe ancora Clay Shirky.
Per la maggior parte dei lettori digitali un contenuto “amatoriale” è abbastanza buono e, generalmente, tende a soddisfare un bisogno informativo o ricreativo. È a un clic, è aggiornato, è gratuito o costa pochi spiccioli, ed è dignitoso. Sono una piccola percentuale quei lettori che sentono il bisogno di andare oltre acquistando il “New York Times” o recandosi in libreria per comprare un romanzo di Ian McEwan. Una notizia letta sull’“Huffington Post”, o un ebook di Amanda Hocking o John Locke “per centinaia di migliaia di lettori è abbastanza”, dice Ingram, che conclude così: “Il messaggio di Godin può essere impopolare, ma è il modo in cui i contenuti funzionano oggi”.
Come testimonial del grande cambiamento in atto interviene il grande regista hollywoodiano e superbo vignaiolo Francis Ford Coppola – che in verità i soldi li ha già fatti (lui dice con il vino) – che in una lunga intervista a “99U” ha detto: “Stiamo entrando in una nuova era e forse l’arte sarà gratis. Forse hanno ragione gli studenti, che dovrebbero poter scaricare musica e film. Mi spareranno per quello che ho detto. Chi dice che si deve pagare per l’arte? Chi dice che gli artisti devono essere pagati? ... Cerchiamo di disconnettere l’idea dell’arte da quella del denaro”.
Che gli artisti, allora, debbano seguire davvero l’esempio professionale di Coppola, “in vino panis”?

Il signor Mac Buck