Il Gufo Rosa

Il Gufo Rosa
Sui libri digitali e non (e altre diavolerie)

20 dicembre 2012

Dimenticavo di dirvi...

che è uscita la terza leggenda del Gufo Rosa e questa volta abbiamo fatto le cose in grande: un ebook animato per iPad intitolato Ecco la Cicogna.

Sappiate che è un libro che suona, parla, si anima e disegna, arriva persino a proiettare video. È una creatura vivente? Può darsi, la sua ebook developer – la sacerdotessa E. che avete avuto modo di conoscere sin dagli albori di questo blog – ammette che il parto è stato faticoso e sorprendente.

Se volete saperne di più, vi consiglio di leggere lo spumeggiante comunicato e di dare un'occhiata al booktrailer.



Per i più curiosi, interessati a sfrugugliarlo dal di dentro, suggerisco di guardare le slide presentate in occasione del Pisa Book Festival.


25 ottobre 2012

Indovina chi viene a Valvermosa



COMUNICATO UFFICIALE

Pisa, 25 ottobre 2012 – È uscita la seconda leggenda della trilogia del Gufo Rosa: GufiaAccorrete a leggerla!

Fine del Comunicato ufficiale

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COMUNICATO UFFICIOSO

Valvermosa, 25 ottobre 2012 – La più buffa e esilarante leggenda della trilogia del Gufo Rosa arriva finalmente nelle librerie digitali: Gufia. Il Pentolone di Epifanialisa trabocca di cioccolato. I.M.B. ringrazia: almeno stasera, si mangia qualcosa di diverso. 

Fine del Comunicato ufficioso

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COMUNICATO DALL'UFFICIO

Bosco delle Piccole Mirabolanti Avventure, 25 ottobre 2012 – Valvermosa è in fermento. Sta per arrivare un visitatore e bisogna accoglierlo con tutti gli onori, parola di Epifanialisa. Anzi del suo Pentolone. Peccato che non si riesca proprio a capire chi sia questo visitatore. Un Tufo Allegro? Un Tufo Rosa? L’unico modo per scoprire chi sia in realtà è aspettare con pazienza che arrivi... e leggere Gufia, la seconda leggenda della trilogia del Gufo Rosa.

Fine del Comunicato dall'ufficio

11 settembre 2012

Reinventarsi


I contenuti hanno ancora un valore economico per gli autori? Ce ne parla il signor Mac Buck in questo post settembrino.



Arance spremute
Non è mai stato facile vivere dignitosamente di arti liberali come la musica o la scrittura. Mozart è morto indigente ed è stato sepolto in una fossa comune nella fastosa Vienna del 1791, che pur lo riconosceva come il suo genio più grande. Cinquant’anni prima Voltaire, il più disincantato e mondano dei philosophes, non resistette più di tre anni al mecenatismo dispotico del suo illuminato protettore, Federico II, che diceva di lui: “Si spreme l'arancia e la buccia si butta via”. Nel 1709 Anna Stuart, prima regina del Regno Unito e ultima cattolica, per aiutare gli autori a sopravvivere nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte – senza gravare sul bilancio del Cancelliere dello Scacchiere – introdusse il principio del “copyright”, cioè il diritto degli autori a ricevere, per un periodo di 14 anni, un compenso ogni volta che una loro opera fosse stata riprodotta a stampa, rappresentata o copiata.
Questa piccola grande idea, codificata nello Statuto d’Anna e già attuata due secoli prima a Venezia e Firenze, ha funzionato fino al XXI secolo, rendendo straordinariamente ricchi un pugno di artisti e creativi e assicurando una dignitosa sopravvivenza a chi avesse un talento o una fortuna non proprio comune. Beninteso, si è trattato di un fenomeno d’élite: si calcola che negli Stati Uniti siano poche migliaia (intorno a tremila) gli artisti che vivono dei diritti d’autore.
Internet ha scardinato alle radici questo modello a tal punto che un guru come Seth Godin ha dichiarato che gli autori non possono più pretendere di essere pagati per il contenuto delle loro opere. Devono arrangiarsi diversamente. Si torna alle arance spremute? No, il modello potrebbe essere quello imprenditoriale di Albrecht Dürer, il “Raffaello” tedesco, prototipo del freelance secondo l’“Economist”.
Se guardiamo a ciò che è successo nella musica liquida – la testa di ponte dell’industria culturale nel territorio ostile del digitale – si capisce subito perché quella di Godin è più una presa d’atto che un paradosso.

Caccia grossa al cliente
Daniele Lepido su “Il Sole 24 Ore” – rielaborando alcuni dati di Digital Music News – ha calcolato quanti clienti deve trovare un musicista per ricavare un modesto stipendio di 1200 dollari al mese dai diritti d’autore. Ogni mese devono arrivare questi clienti o combinarsi frazioni di questi numeri:

a. 2320 CD (pubblicati da una casa musicale) acquistati al prezzo di 9,90$ [0,5$];
b. 14.500 download da iTunes [0,08$];
c. 23.200 download di suonerie per cellulare [0,05$];
d. 232.000 brani in streaming da Spotify [0,0005$].

In parentesi quadra il guadagno da unità di prodotto per l’artista, prima delle tasse che non sono solo in Italia.
Facciamo noi lo stesso calcolo per gli scrittori che si aspettano un ricavo di 1200 dollari al mese dai diritti d’autore. Per loro va un po’ meglio, ma non c’è granché da festeggiare. Ecco qua i clienti che devono arrivare:

a. 1000 libri acquistati al prezzo di copertina di 14,90$ [1,19$];
b. 805 download di ebook (pubblicati da un editore) al prezzo di copertina di 9,90$ [1,49$];
c. 1740 download di ebook autopubblicati al prezzo di copertina di 0,99$ [0,69$].

Il grafico che segue rende meglio l’idea di quanti clienti siano necessari per realizzare un guadagno di 1200$ al mese con i diritti d’autore.
Si tratta di numeri piuttosto impressionanti soprattutto per la musica, anche alla luce di due fattori che caratterizzano lo scenario digitale. Il primo è la sproporzionata eccedenza dell’offerta sulla domanda in conseguenza all’abbattimento di ogni barriera d’ingresso al mercato – un disallineamento, detto anche surplus cognitivo, per il quale non si intravede una soluzione, perché tende ad autoriprodursi. Per non parlare poi della pirateria, che allarga il canyon tra disponibile e venduto. Il secondo è che la produzione artistica non è, in alcun modo, un processo industriale e mai lo diventerà, con grande rammarico per gli editori e i produttori. Gli analisti di Goldman Sachs, la più grande banca d’investimento del mondo, riescono a fare proiezioni di vendita con scostamenti minimi per qualsiasi prodotto industriale eccetto che per i “prodotti” culturali: di fronte a un film, un album o un libro alzano bandiera bianca. I comportamenti dei “consumatori culturali” non sono riconducibili a modelli dentro un algoritmo. L’opera d’arte, dice Ingmar Bergman, è un’imprevedibile alchimia.
Torniamo allora alle tesi di Seth Godin, che non a caso è uno sciamano.



Seth Godin senza freni
Secondo Godin il cambiamento è così epocale che tocca reinventarsi come gli ibernati del pianeta delle scimmie che, al loro risveglio, trovano un mondo sconosciuto che si rivela essere quello da cui provengono. E, come nella finzione del film/romanzo, la realtà sembra non solo irriconoscibile, ma assume i contorni di un vero e proprio incubo. In questo nuovo/vecchio mondo non c’è modo di fare soldi con la scrittura o con altre arti liberali, precisa Godin. Il futuro sarà popolato da un grande numero di aspiranti artisti, e solo pochissimi tenaci talenti, come in un X Factor planetario, potranno uscire dall’oscurità e condurre una vita agiata. “Il tempo degli operai della parola è finito”, dice Godin. Ma perché gli autori non potranno più sperare di monetizzare le loro creazioni come hanno sempre fatto? Per il venir meno della “scarsità” che, come dice Clay Shirky, è molto più facile da gestire dell’abbondanza.
Nell’economia post-Gutenberg la riproduzione digitale di un bene immateriale come un film, una canzone o un libro può avvenire illimitatamente con un investimento trascurabile. Senza più alcun costo industriale o logistico, tutti saranno in grado di produrre un contenuto, diffonderlo e condividerlo. Il bisogno non incontrerà più la scarsità e il valore di scambio di questo bene tenderà a ridursi a zero. Quindi il “valore economico” di un artista non sta più nella quantità di copie che il suo editore/produttore riesce a vendere a un prezzo massimizzato, ma nelle idee e nella relazione che riesce a creare con il proprio pubblico e l’industria culturale; su questa relazione, in cui l’idea diventa il veicolo autoriale, potrà costruire un rapporto economico. In che modo? Ancora non si sa, ma un modo ci sarà. Il principio è: “Se hai idee, le rendi visibili e le condividi, qualcuno ti farà una proposta”. Il punto focale del valore, quindi, più che il contenuto stesso, diventa la relazione. Per questo il contenuto può anche “essere dato via”, se serve a costruire la relazione, e con la relazione l’autorialità e la reputazione.
Questo il ragionamento di Godin agli autori. E gli editori? Sembra proprio che siano nel film sbagliato, quello degli intermediari, che viaggino su veicoli con le ruote quadrate.

Seth non è da solo
Per la loro serena radicalità, le opinioni di Godin hanno suscitato un certo clamore. Gli editori lo hanno trattato come i troiani trattarono Cassandra.
Allo stesso modo di Godin la pensa Mathew Ingram, uno degli osservatori più autorevoli e onesti del fenomeno dei media all’epoca di Internet. Ha ragione Godin, dice Ingram: il clima è diventato piuttosto torrido per i professionisti dei contenuti. L’ascesa degli scrittori dilettanti, a seguito della democratizzazione della distribuzione attraverso il web e i social media, ha virtualmente cambiato la natura di ogni forma di contenuto “che deve essere convertito in bit”. Oggi siamo nell’epoca dell’autorialità distribuita, direbbe ancora Clay Shirky.
Per la maggior parte dei lettori digitali un contenuto “amatoriale” è abbastanza buono e, generalmente, tende a soddisfare un bisogno informativo o ricreativo. È a un clic, è aggiornato, è gratuito o costa pochi spiccioli, ed è dignitoso. Sono una piccola percentuale quei lettori che sentono il bisogno di andare oltre acquistando il “New York Times” o recandosi in libreria per comprare un romanzo di Ian McEwan. Una notizia letta sull’“Huffington Post”, o un ebook di Amanda Hocking o John Locke “per centinaia di migliaia di lettori è abbastanza”, dice Ingram, che conclude così: “Il messaggio di Godin può essere impopolare, ma è il modo in cui i contenuti funzionano oggi”.
Come testimonial del grande cambiamento in atto interviene il grande regista hollywoodiano e superbo vignaiolo Francis Ford Coppola – che in verità i soldi li ha già fatti (lui dice con il vino) – che in una lunga intervista a “99U” ha detto: “Stiamo entrando in una nuova era e forse l’arte sarà gratis. Forse hanno ragione gli studenti, che dovrebbero poter scaricare musica e film. Mi spareranno per quello che ho detto. Chi dice che si deve pagare per l’arte? Chi dice che gli artisti devono essere pagati? ... Cerchiamo di disconnettere l’idea dell’arte da quella del denaro”.
Che gli artisti, allora, debbano seguire davvero l’esempio professionale di Coppola, “in vino panis”?

Il signor Mac Buck

2 agosto 2012

Storia di un incontro con un libro parlante

Qualche settimana fa mi è capitata una cosa che non mi accadeva da quando ero piccola. Qualcuno ha letto per me una favola dall'inizio alla fine senza interrompersi mai - se non quando ho avuto bisogno di una pausa - e, addirittura, ha ripetuto i pezzi che desideravo leggesse più di una volta. Oltretutto quel qualcuno si chiama Bianca e scrive libri per bambini. Sì, parlo proprio di Bianca Pitzorno!
Due ricordi d'infanzia mi sono balenati alla mente: un adulto che legge con sicurezza "da grande" una storia lunga e piena di personaggi (ciascuno con la sua voce, sapete?) e un mangianastri (che nel mio immaginario infantile è sempre stato una più amichevole versione di Mangiafuoco) che racconta una storia e ad ogni suono di campanello invita a girare la pagina del mio librone.
L'atmosfera e l'emozione di quel giorno sono stati gli stessi di anni fa, eppure stavolta è stato qualcosa di ben diverso. C'era un iPad  stretto tra le mie mani (novello mangianastri) e ciò che stavo leggendo/mi veniva letto non era un audiolibro per bambini,  ma un ebook arricchito. L'audiolibro 2.0, il rampollo più giovane e tecnologico della famiglia dei libri letti ad alta voce*. No, non c'era Bianca con me nella stanza. Ma la sua voce sì, eccome!


Di quale ebook sto parlando? Di A cavallo della scopa di Bianca Pitzorno edito da Mondadori e letto proprio dalla Pitzorno. La lettura di un libro da parte del suo autore è un valore aggiunto di per sé, ma lo è a maggior ragione se l'autrice in questione è una delle migliori penne della letteratura per l'infanzia. In questo caso specifico all'autrice/lettrice non mancano ottime capacità interpretative unite a una generosa dose di freschezza e genuinità, assicurate da una forte cadenza regionale. Così i personaggi e la storia si trasformano in cari amici che l'autrice evoca con la sua voce, proprio come ha già fatto a suo tempo con la penna.

Non mi soffermerò sulla trama dell'avventurosa e buffa storia che la Pitzorno ci ha regalato, lasciando al lettore tutto il piacere di scoprirne il gusto e le risate. Vi racconterò cosa ho visto in quest'ebook.
Le parole, raccolte in paragrafi, scorrono verso l'alto (sì, come nei titoli di coda di un film) e anche la storia scorre, come un torrente vivace che sa già dove andrà a finire, ma al lettore non lo può rivelare: che sorpresa sarebbe se no?
Sembra un papiro questo libro che scorre e parla da solo, un papiro che si srotola davanti agli occhi, ma anche dentro la testa. Un papiro magico letto da una strega buona con voce di nonna.
Tante piccole illustrazioni (i personaggi, ma anche dettagli di oggetti del racconto) fanno da cornice, discreta e cortese, al testo. Un simpatico motivetto accompagna alcuni momenti della narrazione (e dà il ritmo a un girotondo - nel frontespizio animato - a cui verrebbe voglia di partecipare). Per chi volesse leggere da solo tra sé e sé e far riposare un po' la voce di Bianca, c'è la possibilità di interrompere l'audio. Attenzione, la scopa del titolo è vivace e  arzilla e potrebbe comparire d'improvviso e poi sfrecciare via. Come scovarla? Un suggerimento: cercate una stella in copertina e, anziché aspettare che caschi, premetela. E fate buon viaggio.

Annalisa Uccheddu @SiskaEditore



*Curiosità: dall'1 al 31 luglio si sono tenute decine di letture ad alta voce in giro per l'Italia grazie all'iniziativa Flashbook un libro a ciel sereno.

28 giugno 2012

Gli ebook verso il 50%



La crescita esponenziale degli ebook negli Stati Uniti e nel Regno Unito, i due mercati guida dell’editoria globale, offre finalmente la possibilità di tracciare alcuni comportamenti dei consumatori e dei produttori di contenuti che prima o poi si estenderanno ai mercati che sono rimasti indietro, come l’Europa continentale e l’Italia. Steve Jobs, guardando i comportamenti dei giovani a Istanbul – dove era in vacanza con la famiglia – e notando che tutti bevevano l’espresso e non il caffè alla turca che la guida cercava di somministrargli, aveva osservato che i consumatori di tutto il mondo vogliono la stessa cosa e si comportano nello stesso modo. Quindi non alimentiamo troppe illusioni circa l’unicità di certi fenomeni che da noi non arrivano o non attaccano. L’ebook arriverà anche in Italia con le stesse modalità dei mercati più sviluppati.
I grandi gruppi editoriali, che sono tutti a New York City tra Wall Street e l’Apple Store all’incrocio tra la 5a e la 59a (i nuovi yin e yang dell’industria dei media), hanno dichiarato che oltre un terzo dei loro profitti proviene dal libro digitale. Un quarto dei lettori americani e un quinto di quelli britannici nel marzo del 2012 ha già acquistato un ebook. Se guardate questi dati, sembra di osservare i profitti della Apple dello stesso periodo: un razzo sparato in aria. Pew Research Center, uno dei più autorevoli osservatori sull’industria dei contenuti, ha previsto che nel 2025 gli ebook saranno il 75% dei libri. Altri si sono arrischiati a dire che, negli USA, già nel 2014 la quota di mercato raggiungerà il 50%; e poi a distanza di qualche anno succederà lo stesso negli altri mercati.



Il dibattito globale non è più sull’ebook, ma su come deve essere l’ebook e su come questo trasformerà il modo di produrre e consumare contenuti. Gli anglosassoni che hanno inventato la statistica moderna e l’analisi di mercato stanno realizzando delle indagini che iniziano a mettere a fuoco i vari aspetti di questo fenomeno nascente.

L’aumento dell’offerta
Guardando i dati che seguono Peter Turner, attento osservatore dei fenomeni editoriali, ha commentato: “Come si scrive Tsunami?”. Nel 2010 negli Stati Uniti Bowker, l’agenzia che rilascia i codici ISBN, ha ricevuto dagli editori quasi 350.000 richieste, con un modesto incremento sul 2007, e qualcosa come 3.800.000 richieste per titoli non tradizionali (cioè di soggetti diversi dagli editori), quando le stesse erano state appena 100.000 nel 2007. Ma che diamine è successo tra il 2007 e il 2010? Semplice: è arrivato il Kindle e sono esplosi gli ebook. Nel 2011 Bowker dichiara di aver rilasciato 211.000 ISBN per ebook di titoli autopubblicati, quasi il doppio dell’anno precedente, e quasi due terzi dei titoli pubblicati dall’intero gruppo degli editori.



Dove si acquistano gli ebook?
Sapere dove i lettori acquistano gli ebook è davvero fondamentale, soprattutto per chi li produce che, come abbiamo visto, non sono più soltanto gli editori. Nonostante esista uno standard, l’ePub, e che tutti i costruttori di e-reader e di applicazioni per e-reader giurino di applicarlo, la situazione è come quella del traffico del Cairo, cioè un grandissimo blob: l’ePub, come nei migliori film d’azione fantascientifici, si trasforma continuamente e inseguiamo sempre la sua ultima trasformazione. È un po’ quello che c’era all’inizio di Internet con l’HTML. Su un browser le pagine funzionavano bene, su un altro non funzionavano affatto. Lo stesso sta succedendo con gli ebook: su iPad con iBooks la pagina è favolosa, ma già su Adobe Digital Editions c’è qualche problema, per non parlare di quello che viene visualizzato sugli e-reader e sui tablet a basso costo. Amazon, poi, ha un formato proprietario che sembra proprio un dispetto, perché è un clone infelice dell’ePub. La prima domanda che un produttore di contenuti deve porsi è questa: per quale piattaforma devo ottimizzare l’ebook? Risposta: per quella dove i lettori lo comprano e per il device con cui lo leggono. Ed ecco che finalmente sappiamo qualcosa di più a questo proposito.
Bowker ha presentato al BookExpo America del 2012 i risultati di uno studio condotto in 10 paesi tramite interviste a 10.000 persone, un campione rappresentativo della popolazione adulta in termini di età, sesso e regione di provenienza. Da questa indagine risulta che i tre più importanti “luoghi di acquisto” sono Amazon Kindle Store con il 35%, Apple iBookstore con il 23% e la vendita diretta con il 13%.



Niente che non intuissimo già, ma qualche considerazione è necessaria. I lettori si recano nei luoghi che conoscono di più, verso i quali nutrono fiducia. Amazon è il più grande e-commerce del pianeta con 165 milioni di clienti e, come dice Bill Gates: “Compro i libri su Amazon perché ho poco tempo, c’è un’offerta enorme e sono molto affidabili”. Apple ha oltre 350 milioni di clienti e ogni giorno dai suoi store vengono scaricati milioni di prodotti media. La vendita diretta conferma, se ce ne fosse bisogno, la forza dei social media anche tra i lettori. Si acquista da un soggetto che si segue su Facebook o su Twitter nei cui confronti c’è un rapporto quasi “personale”. I siti degli editori e le librerie online indipendenti funzionano peggio anche per la difficoltà a catalizzare traffico e a costruire un servizio che possa competere con le grandi piattaforme di distribuzione. Non è un caso che nell’economia dei prodotti fisici non siano gli editori a vendere i libri al pubblico, bensì le librerie, a tal punto che è più facile ricordare il nome di una libreria che quello di un editore.
Il consumatore va su Amazon e Apple anche per un altro motivo: il negozio di ebook è completamente integrato con i dispositivi e le applicazioni di lettura, così acquistare diventa semplice come allungare un braccio e cogliere una mela.

Dove si leggono gli ebook?
Un altro interrogativo importante è quello che riguarda il dispositivo con maggiore potenzialità di sviluppo tra le quattro tipologie che si contendono il lettore: l’e-reader con schermo e-ink, il tablet, lo smartphone e il computer. Fin dagli inizi, negli USA, è stato l’e-reader dedicato il device d’elezione per gli ebook: nell’agosto del 2011 il 72% dei lettori lo preferiva a qualsiasi altro dispositivo. Ad appena dieci mesi di distanza la situazione è già cambiata. Il grafico (“Dispositivo preferito per leggere gli ebookin USA”) mostra che la rimonta dei tablet sugli e-reader è già iniziata nel dicembre del 2011; la quota dell’e-reader è calata di oltre 10 punti. Ma che cosa è accaduto tra agosto e dicembre 2011? È accaduto che Amazon ha lanciato il suo tablet, il Kindle Fire, e nei primi tre mesi ne ha già venduti quasi 4 milioni e la Apple ha venduto, nel quarto trimestre del 2011, 15 milioni e mezzo di iPad.
Questo trend si è rafforzato nel primo semestre del 2012 e, come conclude uno studio di Bowker, “i consumatori di ebook stanno dicendo sì ai tablet”. È da ritenere che questo trend sia ormai irreversibile.



Che conseguenze può avere questo trasloco di preferenze sui programmi degli editori e dei produttori di contenuti? Lasciamo la parola ad Angela Bole, che ha diretto lo studio di Bowker: “Capire lo spostamento di preferenze dall’e-reader dedicato al tablet multifunzione è molto importante per gli editori, poiché gli consente di pubblicare ebook più ricchi, più interattivi, più avanzati sul piano dell’esperienza di lettura. Questo è quello che attende gli editori nel prossimo futuro”. Verrebbe da aggiungere un “molto”, a quel “prossimo”.

Quali generi si leggono di più?
Un’altra informazione preziosa, per gli editori e gli altri soggetti che si affacciano sul mercato degli ebook dal lato dell’offerta, è quella dei generi che incontrano maggiore favore tra i lettori di libri digitali. Occorre premettere che, a causa della limitatezza della tecnologia, un’ampia gamma di generi è rimasta esclusa da questo mercato. Tutto il comparto del libro illustrato, del libro per ragazzi, gli stessi libri di testo non hanno potuto trovare nell’ebook uno sbocco in grado di fornire una valida alternativa al libro stampato. Alcuni di questi prodotti hanno intrapreso la strada delle applicazioni, con risultati alle volte così strabilianti da porre l’interrogativo se si tratti ancora di libro o di qualcosa di cui non si è ancora inventato il nome. Non è un caso che sull’AppStore, dopo la categoria dei giochi e quella dell’intrattenimento, vi sia proprio quella dei libri ad avere il maggior numero di applicazioni. Quello delle applicazioni, almeno per adesso, è un mercato differente da quello dei libri, anche come pubblico di riferimento. Ora, con l’arrivo dell’ePub3 e la messa a punto della tecnologia del Fixed Layout, anche questi generi possono incontrare i loro lettori sugli schermi dei tablet.
Nella graduatoria dei generi (vedi grafico “USA: quote di mercato dell’ebook per genere”) sorprende vedere che, sempre negli USA, il genere mystery alla fine del 2011 tocca già una quota di mercato vicina al 30%, seguito immediatamente dal genere romance con un bel 27%. Tra il 15 e il 20% troviamo il genere biografico, young adult e la ubiqua cucina, a dimostrazione che il mangiar bene nutre anche la mente. Il libro illustrato per ragazzi non raggiunge neppure il 5%, quando invece è uno dei comparti più dinamici del mercato del libro. Le ragioni sono note.
Che indicazione ci viene da questi numeri? Questa: la rivoluzione degli ebook non coinvolge indifferentemente tutto il mercato del libro, ma solo alcuni comparti, e in particolare quello della fiction. Chi opera in questo segmento deve iniziare a porre gli ebook al centro della propria azione, come hanno già fatto i grandi editori USA. Agli altri editori resta ancora quella che Ingmar Bergman chiama “la breve estate svedese”, un periodo felice ma effimero.



Nel Regno Unito, con il 23% (vedi grafico “UK: quote di mercato dell’ebook per genere”), è il genere romance che ha il maggior numero di lettori, seguito dal crime/mistery, che è l’unico genere a superare il 10%. Gli ebook di cucina hanno invece scarso richiamo sul mercato inglese, a testimonianza del fatto che tra gli anglosassoni e la cucina non c’è grandissima attrazione reciproca. I trend del mercato UK confermano quelli del mercato USA: il fenomeno degli ebook interessa sostanzialmente la fiction. Ma questa situazione è destinata a cambiare nel 2012.



Che ne pensa il lettore forte dell’ebook?
A questo proposito i dati emersi da un’indagine condotta da Book Industry Study Group (BISG), l’associazione dell’industria del libro negli USA, stimolano una riflessione. Che cosa trattiene un lettore forte dal passare dalla carta all’ebook?, ha chiesto BISG a un campione selezionato.



Non è come generalmente si pensa o si scrive, ovvero il fatto che i lettori forti preferiscono la carta al video: solo il 16% dà questa motivazione. Molti, semplicemente, non hanno tempo, il 30%; altri sono trattenuti da tre fattori di cui si discute molto e si continuerà a discutere: il 30,3% dal prezzo, il 18% dall’impossibilità di rivendere o disfarsi dell’ebook dopo l’utilizzo e il 16,6% similmente lamenta la difficoltà di scambiare o condividere l’ebook con altri.



Si tratta di barriere che non hanno niente a che vedere con la tecnologia ma afferiscono alle politiche commerciali degli editori e allo statuto giuridico dell’ebook, che è un problema enorme. Il consumatore, quando “acquista” un ebook, non ne diviene proprietario come per un libro, ma licenziatario, come per un software. Una bella differenza: un ebook non si può cedere, rivendere, prestare, lasciare in eredità o battere a un’asta di Sotheby’s.

Che futuro ha la lettura?
Quel 30% che dice di non avere tempo in realtà esprime un “sentimento” che non è per niente da trascurare. Nel mondo digitale la lettura, che avviene nel tempo libero, ha una pletora di contendenti che supera il numero dei proci che combattevano per la mano di Penelope. Le applicazioni per dispositivi mobili sono un concorrente nuovo e agguerrito che combatte con le stesse armi dell’ebook: vi si può accedere ovunque, è ubiquo, e offre un contenuto alle volte più stimolante della mera lettura. Uno studio realizzato da Pew Research Center dice infatti che, durante i 90 minuti giornalieri trascorsi sul tablet, solo il 17% dei possessori legge libri. Altre attività sono più popolari: il 53% vi legge le notizie, il 39% lo usa per socializzare, il 30% si immerge nei videogiochi.
Il tablet multifunzione è una grande opportunità per l’editoria, ma anche una minaccia per l’industria del libro: offre al lettore forte molte tentazioni, tentazioni che sono espunte in toto se questi lettori vengono confinati negli e-reader monofunzione, come il Kindle o il Kobo. Con l’avvento del tablet, il lettore forte potrebbe trasformarsi in lettore più occasionale, cioè debole. Un bel problema visto che l’industria del libro sta in piedi grazie all’apporto dei lettori forti, la maggioranza dei quali ha un reddito compreso tra i 50.000 e i 100.000 dollari annui.
Alla luce di questa evoluzione viene da domandarsi se possa ancora esistere un futuro per la lettura come forma di comunicazione e di trasmissione della conoscenza. I libri saranno ancora tra noi o saranno sostituiti da qualcosa che mette in moto un’attività meno intensa, meno cerebrale, meno immaginativa della lettura? La seconda ipotesi non è del tutto da escludere, del resto la lettura non esiste in natura, è una manifestazione dell’intelletto e neanche troppo antica: comparve con la scrittura appena 5000 anni fa. Può esistere una comunità umana senza lettura? Può essere la lettura una forma transitoria dell’intelletto? Bisognerebbe rivolgere questa domanda a Ray Bradbury, ma purtroppo non è più tra noi per rispondere. Neanche Roland Barthes è tra noi.
Intanto consoliamoci con il fatto che, grazie all’ebook e al digitale, i lettori stanno aumentando, specialmente nei paesi in via di sviluppo. In India il mercato degli ebook nel 2011 ha raggiunto la quota del 24%, più di quello USA, e in Brasile del 21%, quanto quello UK. Qui sembra appropriato il vecchio cinico adagio che dice “La lettura dei libri è morta? Viva la lettura!”
Non è l’apocalisse.

Il signor Mac Buck

18 giugno 2012

Amazon contro tutti, tutti contro Amazon

Il cannoneggiamento

Quello che è avvenuto tra l’industria del libro e Amazon ricorda le cannoniere del Commodoro americano Matthew Perry che nel 1854 costrinsero il Giappone ad aprirsi ai commerci internazionali.
Nei supermercati esiste una sola categoria di prodotti che ha stampato sulla confezione il prezzo di vendita, i libri. Il prezzo di tutti gli altri articoli è collocato sugli scaffali perché deciso dall’esercente. Il prezzo del libro lo decide invece l’editore e non si può toccare: è la legge. Nel Regno Unito – il paese di Adam Smith, che però è scozzese – il prezzo dei libri è libero, ma l’IVA è zero. In Italia i libri di testo hanno un tetto di spesa fissato dal Ministro dell’Educazione. Nella scuola primaria i libri li regala il governo. Gli americani, che sono molto pratici, hanno ormai superato ogni senso di colpa verso il libro, che è considerato un bene di consumo al pari dell’hot dog. Storicamente, però, il mercato del libro è un mercato regolato, perché il libro è associato a una valenza sociale tale da dover essere accudito come le orchidee di Nero Wolfe. Non a caso è il prodotto anticiclico per antonomasia. A causa di questa “coltivazione in serra” l’industria del libro è un club molto esclusivo con delle barriere d’ingresso altissime e innovazione modesta: somiglia al Giappone della metà del XIX secolo.
Se scaricate l’applicazione di Amazon per iPhone, nell’avviarla vi aspettereste di entrare subito nel negozio; invece vi sarà proposto un pulsante: “scan a barcode”. Tramite questo pulsante è possibile acquisire il codice a barre di un libro e lanciare una ricerca in rete per scoprire su Amazon il prezzo migliore.
Intorno a questo servizio si è scatenato un putiferio che sembrava gli ultimi giorni di Pompei. I consumatori si recavano in libreria, prendevano un libro, lo sfogliavano e poi fotografavano il codice a barre; appena in strada lo acquistavano su Amazon, spesso come ebook. Con grande serendipità Jeff Bezos, il boss di Amazon, ha dichiarato che iniziative eterodosse come queste stimolano l’innovazione, aiutano lo sviluppo e incoraggiano il consumo. Sembra di sentire il commodoro Perry!
Come per il Commodoro Perry con il Giappone, viene da chiedersi se Amazon per l’industria del libro sia un nemico, un amico o mezzo e mezzo, cioè un frenemy. Intanto che cerchiamo la risposta, gli effetti che Amazon ha provocato sull’industria culturale si vedono dal satellite. Esaminiamo i più vistosi, oltre a quello sotto gli occhi di tutti, cioè che l’ebook, nel paese benchmark, copre quasi la metà del mercato del libro e dei fatturati delle case editrici.

L’effetto ISBN



Guardate il grafico “ISBN rilasciati negli USA dal 2007 al 2010”. La quantità di ISBN riservata alle case editrici è rimasta immutata nei quattro anni in esame: circa 250.000 all’anno. Gli ISBN rilasciati per titoli non convenzionali o indipendenti (cioè non pubblicati da editori tradizionali) sono passati dai 100.000 del 2007 ai 2.800.000 mila del 2010. Ma che diamine è successo tra il 2007 e il 2010? È arrivato il Kindle di Amazon, hanno preso il via gli ebook e sono cadute le barriere alla pubblicazione.
Secondo Bowker, l’agenzia ufficiale per il rilascio degli IBSN negli USA, nel 2011 ci sono stati 211.269 ebook autopubblicati, con un incremento del 75% sull’anno precedente. Sono di poco inferiori ai titoli lanciati dalle case editrici. “Come si scrive Tsunami?” ha commentato Peter Turner, attento osservatore dei fenomeni editoriali. Gli editori iniziano a chiedersi quanto resteranno ancora al posto di guida.

L’effetto “dumping” dei prezzi




Bowker ci informa che il prezzo medio di un ebook è $12,68 per un paperback e $14,40 per un hardcover. Quello di un ebook autopubblicato è $3,18. Gli editori tradizionali sono ancora al posto di guida; se però andiamo a scorporare i prezzi praticati sul Kindle Store di Amazon le cose cambiano parecchio. Stando a un rapporto basato sul bestseller archive di Kindle, il prezzo medio dei primi 100 titoli in classifica crolla a $8,26, mentre quello di un titolo indipendente scende a $1,40. In questo scenario al posto di guida c’è già Amazon, che dice che gli ebook devono costare meno di 10 euro.
Che succederà? I prezzi degli ebook scenderanno, anche perché Jeff Bezos ha trovato un alleato inaspettato in Eric Holder a capo del Dipartimento della Giustizia dell’amministrazione Obama. Holder ha dichiarato senza mezzi termini che si deve tornare subito al modello retailer di Amazon: l’editore consiglia un prezzo ma è l’esercente che decide quello al pubblico. Una posizione che è condivisa dai regolatori europei. Si torna, come si dolgono editori, autori e il New York Times, ai prezzi predatori di Amazon, che usa i libri come gadget per acquisire quote di mercato e instaurare un “… monolite monopolista. I bassi prezzi di Amazon mascherano un prezzo sociale altissimo”, scrive David Carr, il media columnist del NYT.
Difficile contraddirlo, ma il prezzo degli ebook, una volta risolto in Europa il problema del differenziale IVA con i libri, deve scendere parecchio per due ragioni.
La prima è che l’ebook genera delle economie di processo importanti accorciando gli strati di intermediazione che si frappongono tra l’autore e il lettore.




La seconda è che il consumatore, quando “acquista” un ebook, non ne diviene proprietario come per un libro, ma licenziatario, come per un software. Una bella differenza: un ebook non si può cedere, rivendere, prestare, lasciare in eredità o battere in un’asta di Sotheby’s. Questo stato giuridico che non dà piena disponibilità del bene gli toglie “valore”: quello d’uso resta, quello di scambio non c’è più.

L’effetto Laredo

Chi ama il western certamente ricorderà la città di Laredo, al confine tra Texas e Messico, che oggi conta più di mezzo milione di abitanti compreso il distretto. Bene, nella città di Laredo non ci sono più librerie. Per trovare una libreria, gli abitanti di Laredo devono percorrere 150 miglia per recarsi a San Antonio.
A Laredo non leggono più allora? No. Gli abitanti se li fanno mandare, nottetempo, da Amazon. “Compro i libri su Amazon perché ho poco tempo, c’è un’offerta enorme e sono molto affidabili”, ha dichiarato molti anni fa Bill Gates interpretando il pensiero di moltissimi consumatori. Comunque un altro effetto doloroso dell’esistenza di Amazon è la scomparsa delle librerie con la loro aura di luogo “sacro”, come lo ha definito Jason Epstein, il decano dell’industria del libro USA. Vent’anni fa c’erano 4000 librerie indipendenti negli Stati Uniti, oggi ne restano la metà. Che gli Apple Store siano un buon modello per le librerie?

E se James Daunt avesse fatto la cosa giusta?

L’industria costituita ha lanciato una chiamata generale alle armi per l’Amazonmachia, un safari a cui Bloomberg Businessweek ha fornito il poster (vedi la copertina del numero del 20 Gennaio 2012). Può essere un’idea, ma non porta molto lontano, come si è accorto James Daunt, a capo della catena britannica di librerie Waterstone’s. James Daunt non è tenero con Amazon, che ritiene “un competitor molto aggressivo che spinge fuori dal mercato tutti i concorrenti usando pratiche spietate”; eppure, metabolizzato questo dato di fatto, Daunt ha deciso di allearsi con Amazon in quello che l’Economist ha definito “un patto faustiano”. Nelle librerie della catena Waterstone’s i clienti potranno scaricare, con connessione gratuita e una pacca sulla spalla da parte del commesso, ebook dal Kindle Store senza bisogno di farlo per strada. Per tutti gli ebook acquistati tramite wi-fi dai locali delle librerie, Waterstone’s riceverà da Amazon una commissione.
Ma perché l’ha fatto? Per coccolare il lettore che ama gli ebook, ma ama anche andare in libreria, se questa è accogliente e ben organizzata. Ecco cosa dice Daunt: “Gli ebook costituiscono una grande opportunità. Se oltre al libro fisico offriamo altri prodotti in un’atmosfera gradevole, allora sarà il cliente stesso a scegliere di comprare un dispositivo digitale da noi e gli ebook in libreria”. Per questo concetto, che è così semplice ed efficace, si meriterebbe una statua a Trafalgar Square accanto a quella del Commodoro Nelson.
Che quello di James Daunt sia davvero l’approccio corretto e un modello di comportamento per tutta l’industria? Che Amazon, in fondo alla storia, non sia l’asteroide assassino, ma un fattore di cambiamento “amico” per l’industria del libro, così come il Commodoro Perry lo è stato per il Giappone?

Il signor Mac Buck

12 giugno 2012

Metadati, questi guerrafondai

Parliamo di metadati, cioè di tutte quelle informazioni che servono a descrivere un ebook e posizionarlo all'interno delle librerie (titolo, autore, editore, descrizione, prezzo ecc...). Il loro ruolo è fondamentale nel determinare la reperibilità di un titolo e nel facilitare di conseguenza vendite, acquisti e gestione delle librerie.

Oggi Hubert Guillaud si occupa di questo argomento nel suo blog su Le Monde, commentando a sua volta gli appunti di Mike Shatzkin da Book Expo America che contengono una nota in proposito.

A chiosa di questi due articoli, che vi invito a leggere, vorrei aggiungere due riflessioni:
  • I metadati sono una questione di marketing, di conseguenza se il team di lavoro è organizzato per ruoli specializzati è bene che sia l'addetto marketing e non l'ebook developer a occuparsi della fase di submission, cioè dell'invio dell'ebook alle piattaforme di distribuzione. Ed è altrettanto importante la relazione tra questi due ruoli: l'addetto marketing non deve essere all'oscuro riguardo al file content.opf e l'ebook developer deve comprendere l'importanza di inserire i metadati proprio in questo file. La cosa sembra pacifica, ma vi assicuro non lo è: molto spesso accade che sia l'ebook developer a occuparsi della submission e che i metadati divengano uno dei maggiori casus belli all'interno dei team editoriali.

  • La qualità dei metadati non dipende solo dall'editore, ma anche dalla piattaforma di distribuzione.
Faccio degli esempi pratici per spiegare questo secondo punto. iTunes Producer, il programma mediante cui viene effettuata la submission degli ebook all'iBookstore Apple, non prevede l'inserimento di parole chiave. L'iBookstore inoltre non usa i metadata del file "content.opf" per facilitare le ricerche dei libri (in merito potete leggere l'articolo di Liz Castro, qui tradotto in italiano), probabilmente perché questo comporterebbe un rallentamento nell'offrire i risultati di una ricerca. 
A qualcuno sarà venuto in mente di inserire le parole chiavi nella descrizione; ci ho provato anch'io, e il risultato è stato piuttosto deludente: la descrizione è naturalmente molto importante per l'utente, ma non ai fini della reperibilità di un titolo sull'iBookstore. 

Se utilizziamo l'applicazione iTunes per fare i nostri acquisti digitali, noteremo quindi che le applicazioni per iPhone e iPad sono ben indicizzate, gli ebook no. Il form di submission prevede infatti l'inserimento di parole chiave nel caso delle applicazioni e l'intero percorso che porta l'applicazione sullo store è molto più elastico rispetto a quello degli ebook.
Per farla breve, sull'iBookstore Apple la partita dei metadati si gioca tutta su: titolo, nome autore, nome editore, codice BISAC che identifica la categoria tematica entro cui il libro è inserito, e prezzo naturalmente.
Diverso è il caso di Amazon, a cui bisogna dare atto di avere una piattaforma di gestione dei metadati più performante. Mediante Kindle Direct Publishing l'editore può inserire, fra l'altro, fino a un massimo di 7 parole chiave, e l'aggiornamento dei metadati avviene in tempi più brevi.

Qualcuno magari penserà che in fondo la questione dei metadati è secondaria, che è una roba per la quale gli addetti ai lavori si accapigliano inutilmente, che la cosa importante nell'era digitale è la relazione diretta e disintermediata con il lettore. Ok, date un'occhiata alle classifiche sugli store, e poi se ne riparla: l'intermediario che funge da distributore, soprattutto se si chiama Apple, Amazon o Google, non è onnipotente, ma può molte cose. Possiamo starne certi. 

30 maggio 2012

Uno a molti. La nuova relazione digitale tra uomo e media

Immagine: Maurizio Galluzzo
Dove stiamo andando
In un tweet (in che altro modo sennò?) Daniel Ek, CEO dell’acclamatissimo Spotify, ha manifestato il proprio stupore di fronte al fatto che appena cinque anni fa non c’erano né Facebook né l’iPhone: “Queste due superpiattaforme sono alla base della maggior parte delle innovazioni che vediamo oggi”, dice twittando con 99 caratteri.
Verissimo!
Viene da chiedersi come questo cambiamento abbia influito sui comportamenti delle persone, su quello che, buffamente, si chiama “stile di vita digitale”. Non è un interrogativo da poco e neppure tanto astratto: ai comportamenti digitali è legato un giro d’affari vicino a quello generato dal petrolio, il sangue del pianeta.
Si tratta di informazioni vitali per gli editori di giornali che, poveretti, cercano di vendere sul mercato digitale un qualche contenuto: un’industria plurisecolare, quella editoriale, minacciata di estinzione come la tigre del Bengala o il rinoceronte sudafricano. Lo sono anche per chi lavora nella pubblicità, un settore economico da un trilione di dollari, che fa una gran fatica ad adattarsi al nuovo, come si vede bene nella commedia brillante In Good Company di Paul Weitz, con Dennis Quaid e una ventenne Scarlett Johansson. E l’happy end non è garantito come nel film!

Chiediamolo alla biometria
Si capisce perché Time Inc., che pubblica 130 periodici, abbia commissionato a Innerscope Research, una società di Boston che misura i coinvolgimenti emotivi con tecniche biometriche, uno studio dal bizzarro titolo “A Biometric Day in the Life”, che ha prodotto dei risultati interessanti (niente che non intuissimo già osservando i nostri comportamenti o quelli dei colleghi più giovani, ma qualche meraviglia è ugualmente lecita). Lo studio si prefigge di misurare con metodologie biometriche applicate per 300 ore a un campione di 30 individui l’influenza dei dispositivi mobili e delle piattaforme sulle abitudini di consumo dei prodotti media da parte dei nativi digitali e degli immigrati digitali. “Time” tiene a informarci che i nativi digitali sono “i consumatori cresciuti con le tecnologie digitali come parte integrante della loro esperienza di vita quotidiana”. Gli immigrati digitali, invece, “sono coloro che hanno conosciuto le tecnologie digitali da adulti” e, aggiungo, le hanno adottate per necessità o per scelta.
C’è adesso la sicurezza “biometrica” che l’influenza delle tecnologie mobili sui comportamenti digitali è enorme specialmente tra i primi, i nativi digitali. Le telecamere poste da Innerscope nelle abitazioni del campione selezionato e le rilevazioni biometriche hanno mostrato un comportamento piuttosto differente tra nativi digitali e immigrati, ma non così distante come molti commentatori si sono affrettati a scrivere. Ciò significa che il cambiamento sta veramente interessando tutta la popolazione del pianeta.

I nativi digitali
I nativi digitali sono oltremodo nomadi: in appena un’ora spostano ben 27 volte la loro attenzione da un dispositivo a un altro, da una piattaforma all’altra e da un’attività a un’altra: la concentrazione dura due minuti e qualche secondo (vedi grafico “Livello di concentrazione”). Questi soggetti, però, sono consumatori voraci di media: vi trascorrono il 71% del tempo non lavorativo (vedi il grafico sopra). Li utilizzano anche per regolare il loro umore: appena si annoiano con un contenuto rivolgono la loro attenzione a un altro contenuto o a un dispositivo differente. Un comportamento che richiama alla mente i famosi versi di Montale: La tua irrequietudine / mi fa pensare / agli uccelli di passo / che urtano ai fari / nelle sere tempestose (Dora Markus, Le Occasioni). In questo vagolare, come hanno notificato le reazioni cerebrali dei 15 giovani campionati, il coinvolgimento emotivo è quasi nullo. Si vede che tale nomadismo compulsivo porta allo stato esistenziale dell’atarassia, ricercato fin dall’antichità. Perché un contenuto abbia una qualche speranza di accendere una scintilla deve esaurire il proprio ciclo comunicativo in 2 minuti. E soprattutto deve avere un effetto stimolante sul cervello, come quello di un farmaco specializzato.


Si apprende poi, senza sorpresa, che il 65% dei nativi digitali non si separa mai dal proprio device, lo porta ovunque, anche in camera da letto e in bagno. Più della metà (54%) sembra preferire un messaggio a un contatto verbale. Ma questo già lo sapevamo.
In tutto questo c’è, però, dell’incredibile. Se tornassimo indietro con la macchina del tempo a cinque anni fa, troveremmo solamente due dispositivi dotati di uno schermo nelle nostre case: il personal computer e il televisore. O si usava uno o si usava l’altro, anche perché, in genere, si trovavano in stanze separate. Chi usava entrambi, e già ce n’erano, era considerato, benevolmente, o svitato o geniale.
Incredibile, ma non troppo. Reid Hoffman – fondatore di LinkedIn e homo siliconicus per eccellenza, con una somiglianza imbarazzante con il personaggio di Dennis Nedry di Jurassic Park – ha dichiarato di poter portare avanti, in contemporanea, fino a sette relazioni digitali spalmate sui vari device, di cui neppure lui riesce più a tenere il conto. D’altro canto, si racconta malignamente che l’appena scomparso presidente Gerald Ford, peraltro un ottimo presidente, non riuscisse a masticare una gomma e a emettere un peto senza che le due attività gli si mescolassero. Evoluzione della specie? Sicuramente, trattandosi di due eccellenze.

Gli immigrati digitali
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, gli immigrati digitali non sono per niente stanziali: in un’ora si spostano ben 17 volte da un dispositivo all’altro e da una piattaforma all’altra. Il tempo di esposizione sale a circa 4 minuti: c’è quindi spazio per una narrazione più estesa. Considerando che in un minuto si possono leggere circa 200 parole (pari a un migliaio di caratteri), un articolo medio di “Time” o dell’“Economist” ci sta a malapena. Questi grandi giornali hanno ancora qualcosa da asciugare. Per loro, però, i nativi digitali sono ormai perduti.
La separazione fisica dal proprio device genera ansia anche a questa generazione più matura. Il 41% lo vuole sempre a portata di mano e gli rivolge spessissimo la propria attenzione. Un’indagine sui consumatori americani, condotta nel dicembre 2011 da Nielsen, ha rilevato che il 45% usa regolarmente un device mentre guarda la TV. Con quello che trasmettono è più che logico!


Un aspetto che differenzia più significativamente gli immigrati dai nativi è che i primi sono lineari nel seguire una narrazione attraverso un inizio, uno svolgimento e una conclusione. I nativi invece tendono ad accedervi casualmente, paracadutandosi in un qualsiasi punto e poi muovendosi avanti e indietro senza troppo riguardo per la sequenza narrativa. Questo è un bell’indizio per gli scrittori e gli sceneggiatori. Si capisce perché i nostri ragazzi non riescono a leggere più di dieci pagine della grande narrativa europea dell’Ottocento.

In conclusione
“Non è di grande conforto apprendere che l’attenzione a un contenuto dura due minuti. È quasi impossibile perfino da immaginare” dice Besty Frank, responsabile dell’ufficio studi di “Time”, aggiungendo: “A noi produttori di contenuti e ai pubblicitari è inviato un messaggio chiaro: non dobbiamo metterci troppo ad arrivare al punto e dobbiamo farlo con qualcosa di emotivamente immediato”. S’intuisce facilmente che il cambiamento è enorme e va a toccare la ragion d’essere di questa industria nel mondo che sta andando oltre i mass-media, verso una sorta di personal-media.
Ci si può consolare con qualcosa? Sì.
Allo staff di Time Inc., che ha speso dei soldi per farsi dire che sono inutili, farà piacere apprendere che la stampa periodica continua a provocare una reazione emotiva superiore (con un percentuale di 64) rispetto a tutti gli altri media. Comunque lo staff di Time Inc. ha un bel lavoro di fronte a sé.
Anche noi italiani ci possiamo consolare. I nostri nativi sembrano diversi da quelli d’oltreatlantico.


Un’interessante indagine svolta dall’Associazione Italiana Editori ci dice che i nativi digitali italiani sono sì tecnologici, ma allo schermo preferiscono i libri di carta e la socializzazione avviene di persona. Del resto, da noi la stagione è quasi sempre buona e nevica raramente! Solo il 15% accede a un contenuto o a una piattaforma da più di tre device, anche se la metà degli intervistati dichiara di avere uno smartphone. Si direbbe che sono frenetici al punto giusto. Ai genitori, immigrati digitali per scelta o per necessità, farà senz’altro piacere.
In ogni caso, se in futuro avessimo ancora qualcosa da dire, lo dovremmo dire con una narrazione (possibilmente visuale) di due minuti, oppure dovremmo tacere per sempre.

Il signor Mac Buck

10 maggio 2012

Il Gufo Rosa spiegato a mia mamma


Mamma:  − Che hai fatto oggi?
Io: − Il Gufo Rosa.
− Chiiiii?
− Il Gufo Rosa.
− E che è?
− Se hai un po’ di tempo, te lo spiego.
− Devo cucinare, innaffiare in giardino e passare l’aspirapolvere. Parla.
− Vabbè, tanto non pretendevo che ti mettessi comoda. Partiamo dall’inizio.

Il Gufo Rosa è un gufo rosa, e fin qui non ci piove.
Il Gufo Rosa ha almeno 3 stranezze:
  • porta una maschera da sub
  • sta su dei trampoli
  • vive nello stagno di Valvermosa.
Quindi le domande che ci si pone su questo gufo sono: perché porta una maschera da sub? Perché ha dei trampoli? E perché vive in uno stagno piuttosto che starsene nel buco di un alberello?

Le risposte conducono verso una storia di accoglienza e integrazione da parte degli abitanti di una comunità: quella dei Piricotteri Rosa che vive nello stagno di Valvermosa che si trova nel Bosco delle Piccole Mirabolanti Avventure.
Ci sei?
− Sì, sto innaffiando le piante. Continua.

Ecco, a questo punto sorge un'altra domanda: perché e come ci è arrivato il gufo da quelle parti? Beh, qui le risposte si biforcano, o meglio si triforcano, perché ci sono almeno tre leggende sul Gufo Rosa:
  • la prima leggenda racconta che il Gufo Rosa divenuto grandicello si è messo in viaggio alla ricerca di qualcuno similmente diverso a lui o, con le parole del Gufo, di qualcuno R O S A come lui;
  • la seconda leggenda ci narra invece una storia di discriminazione; il Gufo Rosa è fuggito dal suo pianeta di origine perché tutti i gufi cercavano di sbiancarlo, non si davano pace del fatto che fosse rosa e non bianco come loro;
  • la terza leggenda ci fa sapere invece che il Gufo è stato adottato: la cicogna l'ha portato in una nuova famiglia che l'ha cresciuto come un figlio suo.
Quale di queste leggende è vera? Boh, nessuno nel Bosco delle Piccole Mirabolanti Avventure sa rispondere a questa domanda. E ti dirò di più. Nessuno nel Bosco delle Piccole Mirabolanti Avventure vuole rispondere a questa domanda. «Sono meglio tre leggende che un’unica storia vera!» dicono, e forse hanno proprio ragione.

− Ah, sì, e quindi tu che fai?
− Il Gufo Rosa ma’, vuoi che riniziamo daccapo?

Continua, forse.

26 aprile 2012

Oltre la notorietà: l’oblio all’epoca dei social media





Una nuova sensibilità

Il biografo di Steve Jobs, Walter Isaacson, racconta che Jobs soleva rispondere a qualsiasi ora del giorno e della notte ai blogger e agli insonni giornalisti che questuavano anticipazioni sui nuovi prodotti Apple: «Lasciateci in pace, dimenticateci!». La stessa espressione esce ben dieci volte dalla bocca di Walt Kowalski, un inarrivabile Clint Eastwood in Gran Torino. Due dei maggiori conoscitori del nostro tempo come Jobs ed Eastwood hanno intuito la direzione del vento all’epoca dei social media e dell’informazione diffusa.

Si tratta di uno Zeitgeist intercettato anche dai legislatori europei (meno mummificati di quanto vorrebbe l’“Economist”) e tradotto nel “diritto all’oblio”, un nuovo progetto di regolamento unico sulla privacy valido in tutti i paesi dell’Unione che dovrà essere applicato anche dalle aziende extracomunitarie che operano nei territori europei. La commissaria europea per la giustizia, i diritti fondamentali e la cittadinanza, Viviane Reding, non passa giorno senza spendere parole sulla necessità del provvedimento. Lo scorso ottobre il governo francese ha varato una “Carta per il diritto all’oblio” sottoscritta dai blog e dai social francesi come pure da Microsoft, ma bellamente ignorata da Google e Facebook.

Anche l’amministrazione Obama, nel modo avventuroso che rammenta quello cinematografato da Truffaut in Effetto notte, ha rilasciato il 21 gennaio scorso il “Consumer Bill of Rights” per la privacy online, che dovrebbe tutelare i navigatori della rete dalla tracciatura e dall’utilizzo indebito dei dati personali. Si tratta di un provvedimento più in salsa americana del diritto all’oblio europeo, in quanto si basa su una ricetta cara allo zio Sam: prima gli affari, poi le persone.
La sostanza del diritto all’oblio europeo, che regola moltissimi altri aspetti delle relazioni tra le persone e i media digitali, tra cui anche la reputazione personale, è questa: le persone possono chiedere, senza mediazioni, la rimozione dei dati personali raccolti e immagazzinati da società o altri soggetti della rete sia che tali dati siano stati lasciati volontariamente, sia che essi siano stati “catturati da agenti spia” che osservano surrettiziamente i comportamenti all’interno della rete.



Grafico 1


La posta in gioco

Il diritto all’oblio è importante, forse non altrettanto importante di altri negletti diritti come quello degli animali alla vita, ma indubbiamente è una di quelle cose con cui si misura la qualità di una civiltà. Ma perché questa discussione ha assunto così tanto rilievo? Per due ragioni: la prima è l’esplosione incontenibile del fenomeno dei social media, come dimostra lo schema elaborato da “Fortune” sulla velocità di adozione di questi nuovi mezzi (vedi grafico 1) e la marcia trionfale di Facebook, che ormai sta oscurando Google come un’eclissi di sole (si veda l’eloquente grafico 2 sul tempo trascorso dagli utenti sui due siti); la seconda è la nuova politica sulla privacy di Google che, sfidando l’Unione Europea, unifica in un unico dossier le informazioni raccolte dal complesso dei servizi del motore di ricerca: una mossa difensiva che ha il senso di “tutti all’attacco!”


Grafico 2

Sui dati raccolti da queste entità sarà costruito un business colossale che potrà rivaleggiare con quello del petrolio, la risorsa che manda avanti il pianeta. Già adesso quattro delle dieci società con maggiore capitalizzazione sono tecnologiche, cinque sono petrolifere e una è alimentare. Guardate questo grafico, che mostra le prime dieci property web negli Stati Uniti per traffico nel mese di febbraio 2012. La quasi totalità di queste property basa la propria attività sulla pubblicità, cioè sulla profilazione dei visitatori che permette ai pubblicitari di indirizzare i messaggi giusti, o almeno presunti tali.


Grafico 3

C’è di che preoccuparsi. Queste balene del web sono affamate: per produrre il loro poderoso metabolismo hanno necessità di consumare grandi quantità di risorse, tutti nuotano nella stessa acqua e si rivolgono alla medesima fonte di nutrimento, offrendo la stessa materia prima. Agli occhi degli investitori pubblicitari il web può essere una valida alternativa alla televisione, che funziona piuttosto bene ed è un mezzo che per loro non ha più segreti, ma solo nella misura in cui la rete li aiuta a raggiungere i loro clienti con minore spreco di risorse e puntualmente come lo sparo di un “cecchino”. Questa condizione può essere ottenuta solo se questi nuovi media sono in grado di consegnare ai pubblicitari informazioni specifiche sulle abitudini e i gusti delle persone che si muovono tra le loro pagine. Ecco che i dati personali sono la merce di scambio: profili di persone contro pubblicità. Questa esilarante vignetta del premio Pulitzer Matt Davies rende bene l’idea di che cosa rappresentano gli utenti per il sistema economico del web che si fonda sulla pubblicità. Impossibile dirlo meglio di Matt!



C’è modo e modo...

C’è però un’apprezzabile differenza nel modo in cui Facebook, Google e Apple, per esempio, raccolgono e organizzano le informazioni relative agli utenti, intendendo con Facebook il mondo dei social media, con Google il web del searching e con Apple la nuovissima app economy.

Come osserva Allie Townsend su “Time Magazine”, la faccenda della privacy su Facebook è piuttosto complicata: le persone aderiscono a Facebook per condividere appunto la loro vita personale e comporre, con Timeline, una narrazione delle proprie esperienze esistenziali. Si potrebbe dire che la rinuncia alla privacy è congenita nel decidere di esistere su Facebook: non c’è alcuna forzatura da parte della piattaforma tecnologica nel raccogliere i dati. C’è poco da fare, come osserva Ulrich Börger, un legale di Amburgo che si occupa di questi aspetti. Dice: «Non possiamo proibire un’attività legittima che la gente è disposta a sviluppare, perché ciò violerebbe la libertà individuale di ricevere un servizio che è richiesto». Il problema, però, è qui: a chi appartengono questi dati? E sopratutto: possono essere raccolti gli “shadow profiles”, cioè informazioni appartenenti a persone estranee al network ma che sono coinvolte, a loro insaputa, nello sviluppo di servizi attivati tramite Facebook o applicazioni di terze parti? Facebook, che ha un’intelligenza emotiva elevatissima – si dice grazie a Sheryl Sandberg (chiacchierata anche come papabile presidente donna degli USA, speriamo!) – ha già implicitamente ammesso che i dati appartengono alle persone e che, se li vogliono indietro, non hanno che da dirlo e li avranno. La funzione “download your informations”, molto estesa rispetto a quella del 2010 – comprende adesso indirizzi IP, username e altre categorie di dati molto specifiche – permette di riappropriarsi del proprio dossier. In cambio, sottintende la Sandberg, deve essere riconosciuta la legittimità del modello di business di Facebook, che è basato sull’uso dei dati personali dei propri membri per fini pubblicitari. Siamo sulla strada giusta, ma ci sarà da faticare per arrivare a una soluzione efficiente e condivisa. I gruppi europei che difendono il diritto alla privacy hanno già denunciato l’insufficienza delle misure proposte dal social network: secondo loro ci sono ancora cinquanta categorie di dati sensibili a cui è inibito l’accesso.

Per Google è diverso: quando un utente registrato fa una ricerca, scrive una mail, posta qualcosa su Google+ oppure cerca un video su YouTube non si aspetta di essere osservato. Dal 1 marzo 2012, invece, lo è più e meglio di prima. Se la pubblicità è contestualizzata con l’oggetto della ricerca, niente da dire, ma se lo è con la persona, la faccenda cambia. E adesso è proprio questo l’obiettivo del motore di ricerca: si vede che i miliardi di query giornaliere non bastano più per foraggiare la pubblicità. Google, che ha un’intelligenza emotiva che sfiora la cifra tonda di zero – si dice perché sia in mano agli sviluppatori – ha deciso di raccogliere i dati dell’utente dei differenti servizi in un unico dossier, quando prima erano invece catalogati in base al servizio. Si tratta di una nuova politica sulla privacy, da cui l’utente non può esimersi se non privandosi dei servizi, che è sabbia negli occhi ai legislatori europei e non solo. Nonostante le altisonanti dichiarazioni di Eric Schmidt, presidente di Google, sull’imprescindibilità del “consenso”, i dati personali raccolti dai droni telecomandati di Google, che si muovono come degli ectoplasmi trangugia-dati, hanno ancora l’odore acre dei dossier fabbricati dal KGB. È il prezzo del gratis.

Per Apple il discorso è differente. Così com’era paranoico con la propria vita privata, Steve Jobs lo era anche con i dati che Apple prendeva dai propri clienti. Quei dati non possono essere divulgati in alcun modo, anche se ciò significa perdere delle ottime opportunità di business. Isaacson racconta di una conversazione con Jeff Bewkes, CEO di Time Warner (pagina 543 dell’edizione italiana) in cui diceva di essere disposto, diversamente dagli altri editori USA, ad accettare la commissione del 30% dell’App Store sugli abbonamenti, ma non il fatto che Apple non avrebbe condiviso i dati degli abbonati. Jobs tagliò secco: «Non posso fornire le informazioni sugli abbonati, è la politica di riservatezza della Apple (in inglese “Apple privacy policy”)». E la cosa sfumò. Ma Jobs i soldi li faceva da un’altra parte e quindi poteva permettersi il “beau geste”, anche se per la Apple certe cose hanno un senso davvero.


Scenari futuristici

La Commissione europea si è mossa, i governi europei si stanno muovendo, ma si sta parlando di pachidermi, come ama raffigurarli la stampa anglosassone. La faccenda della privacy, e tutto quello che le gira intorno, è nelle mani delle persone. Gli utenti attivi dei social media possono chiedere e ottenere che i profitti generati dai dati personali e dalle loro attività siano condivisi e non meramente distribuiti agli azionisti. Sarà un calcolo molto difficile da fare, ma qualche analista ci sta già lavorando. Saranno i 121 dollari l’anno per utente stimati da Darika Ahrens di Forrester Research? Sia quel che sia, le grandi balene del web possono snobbare i governi, ma non gli utenti, che sono la loro “benzina”. Come ha giustamente scritto su Repubblica Riccardo Staglianò, acuto osservatore di questi fenomeni, un giorno Facebook dovrà pagarci per il “Mi piace” e Google dovrà versare qualcosa per tracciare la navigazione. È questa l’opinione anche di Kevin Kelly, espressa in un commentatissimo post su Google+.

Il farsi pagare è troppo materialistico, è insopportabilmente dozzinale? Le persone hanno anche un’opzione più “spirituale”, possono scegliere l’oblio. All’epoca dei mass media era la notorietà il mantra dell’esistenza. Che la scomparsa sia invece il sentimento prevalente all’epoca dei social media? Come grida Walt Kowalski, “Get off my lawn!”, ma il fucile spianato non ci sarà più... ci sarà solo un piccolo pulsante: “Cancella”.

Lettura consigliata: Viktor Mayer-Schönberger, Delete: The Virtue of Forgetting in the Digital Age, Princeton University Press, 2011. Kindle edition, € 10,38

Il Signor Mac Buck