Il Gufo Rosa

Il Gufo Rosa
Sui libri digitali e non (e altre diavolerie)

26 aprile 2012

Oltre la notorietà: l’oblio all’epoca dei social media





Una nuova sensibilità

Il biografo di Steve Jobs, Walter Isaacson, racconta che Jobs soleva rispondere a qualsiasi ora del giorno e della notte ai blogger e agli insonni giornalisti che questuavano anticipazioni sui nuovi prodotti Apple: «Lasciateci in pace, dimenticateci!». La stessa espressione esce ben dieci volte dalla bocca di Walt Kowalski, un inarrivabile Clint Eastwood in Gran Torino. Due dei maggiori conoscitori del nostro tempo come Jobs ed Eastwood hanno intuito la direzione del vento all’epoca dei social media e dell’informazione diffusa.

Si tratta di uno Zeitgeist intercettato anche dai legislatori europei (meno mummificati di quanto vorrebbe l’“Economist”) e tradotto nel “diritto all’oblio”, un nuovo progetto di regolamento unico sulla privacy valido in tutti i paesi dell’Unione che dovrà essere applicato anche dalle aziende extracomunitarie che operano nei territori europei. La commissaria europea per la giustizia, i diritti fondamentali e la cittadinanza, Viviane Reding, non passa giorno senza spendere parole sulla necessità del provvedimento. Lo scorso ottobre il governo francese ha varato una “Carta per il diritto all’oblio” sottoscritta dai blog e dai social francesi come pure da Microsoft, ma bellamente ignorata da Google e Facebook.

Anche l’amministrazione Obama, nel modo avventuroso che rammenta quello cinematografato da Truffaut in Effetto notte, ha rilasciato il 21 gennaio scorso il “Consumer Bill of Rights” per la privacy online, che dovrebbe tutelare i navigatori della rete dalla tracciatura e dall’utilizzo indebito dei dati personali. Si tratta di un provvedimento più in salsa americana del diritto all’oblio europeo, in quanto si basa su una ricetta cara allo zio Sam: prima gli affari, poi le persone.
La sostanza del diritto all’oblio europeo, che regola moltissimi altri aspetti delle relazioni tra le persone e i media digitali, tra cui anche la reputazione personale, è questa: le persone possono chiedere, senza mediazioni, la rimozione dei dati personali raccolti e immagazzinati da società o altri soggetti della rete sia che tali dati siano stati lasciati volontariamente, sia che essi siano stati “catturati da agenti spia” che osservano surrettiziamente i comportamenti all’interno della rete.



Grafico 1


La posta in gioco

Il diritto all’oblio è importante, forse non altrettanto importante di altri negletti diritti come quello degli animali alla vita, ma indubbiamente è una di quelle cose con cui si misura la qualità di una civiltà. Ma perché questa discussione ha assunto così tanto rilievo? Per due ragioni: la prima è l’esplosione incontenibile del fenomeno dei social media, come dimostra lo schema elaborato da “Fortune” sulla velocità di adozione di questi nuovi mezzi (vedi grafico 1) e la marcia trionfale di Facebook, che ormai sta oscurando Google come un’eclissi di sole (si veda l’eloquente grafico 2 sul tempo trascorso dagli utenti sui due siti); la seconda è la nuova politica sulla privacy di Google che, sfidando l’Unione Europea, unifica in un unico dossier le informazioni raccolte dal complesso dei servizi del motore di ricerca: una mossa difensiva che ha il senso di “tutti all’attacco!”


Grafico 2

Sui dati raccolti da queste entità sarà costruito un business colossale che potrà rivaleggiare con quello del petrolio, la risorsa che manda avanti il pianeta. Già adesso quattro delle dieci società con maggiore capitalizzazione sono tecnologiche, cinque sono petrolifere e una è alimentare. Guardate questo grafico, che mostra le prime dieci property web negli Stati Uniti per traffico nel mese di febbraio 2012. La quasi totalità di queste property basa la propria attività sulla pubblicità, cioè sulla profilazione dei visitatori che permette ai pubblicitari di indirizzare i messaggi giusti, o almeno presunti tali.


Grafico 3

C’è di che preoccuparsi. Queste balene del web sono affamate: per produrre il loro poderoso metabolismo hanno necessità di consumare grandi quantità di risorse, tutti nuotano nella stessa acqua e si rivolgono alla medesima fonte di nutrimento, offrendo la stessa materia prima. Agli occhi degli investitori pubblicitari il web può essere una valida alternativa alla televisione, che funziona piuttosto bene ed è un mezzo che per loro non ha più segreti, ma solo nella misura in cui la rete li aiuta a raggiungere i loro clienti con minore spreco di risorse e puntualmente come lo sparo di un “cecchino”. Questa condizione può essere ottenuta solo se questi nuovi media sono in grado di consegnare ai pubblicitari informazioni specifiche sulle abitudini e i gusti delle persone che si muovono tra le loro pagine. Ecco che i dati personali sono la merce di scambio: profili di persone contro pubblicità. Questa esilarante vignetta del premio Pulitzer Matt Davies rende bene l’idea di che cosa rappresentano gli utenti per il sistema economico del web che si fonda sulla pubblicità. Impossibile dirlo meglio di Matt!



C’è modo e modo...

C’è però un’apprezzabile differenza nel modo in cui Facebook, Google e Apple, per esempio, raccolgono e organizzano le informazioni relative agli utenti, intendendo con Facebook il mondo dei social media, con Google il web del searching e con Apple la nuovissima app economy.

Come osserva Allie Townsend su “Time Magazine”, la faccenda della privacy su Facebook è piuttosto complicata: le persone aderiscono a Facebook per condividere appunto la loro vita personale e comporre, con Timeline, una narrazione delle proprie esperienze esistenziali. Si potrebbe dire che la rinuncia alla privacy è congenita nel decidere di esistere su Facebook: non c’è alcuna forzatura da parte della piattaforma tecnologica nel raccogliere i dati. C’è poco da fare, come osserva Ulrich Börger, un legale di Amburgo che si occupa di questi aspetti. Dice: «Non possiamo proibire un’attività legittima che la gente è disposta a sviluppare, perché ciò violerebbe la libertà individuale di ricevere un servizio che è richiesto». Il problema, però, è qui: a chi appartengono questi dati? E sopratutto: possono essere raccolti gli “shadow profiles”, cioè informazioni appartenenti a persone estranee al network ma che sono coinvolte, a loro insaputa, nello sviluppo di servizi attivati tramite Facebook o applicazioni di terze parti? Facebook, che ha un’intelligenza emotiva elevatissima – si dice grazie a Sheryl Sandberg (chiacchierata anche come papabile presidente donna degli USA, speriamo!) – ha già implicitamente ammesso che i dati appartengono alle persone e che, se li vogliono indietro, non hanno che da dirlo e li avranno. La funzione “download your informations”, molto estesa rispetto a quella del 2010 – comprende adesso indirizzi IP, username e altre categorie di dati molto specifiche – permette di riappropriarsi del proprio dossier. In cambio, sottintende la Sandberg, deve essere riconosciuta la legittimità del modello di business di Facebook, che è basato sull’uso dei dati personali dei propri membri per fini pubblicitari. Siamo sulla strada giusta, ma ci sarà da faticare per arrivare a una soluzione efficiente e condivisa. I gruppi europei che difendono il diritto alla privacy hanno già denunciato l’insufficienza delle misure proposte dal social network: secondo loro ci sono ancora cinquanta categorie di dati sensibili a cui è inibito l’accesso.

Per Google è diverso: quando un utente registrato fa una ricerca, scrive una mail, posta qualcosa su Google+ oppure cerca un video su YouTube non si aspetta di essere osservato. Dal 1 marzo 2012, invece, lo è più e meglio di prima. Se la pubblicità è contestualizzata con l’oggetto della ricerca, niente da dire, ma se lo è con la persona, la faccenda cambia. E adesso è proprio questo l’obiettivo del motore di ricerca: si vede che i miliardi di query giornaliere non bastano più per foraggiare la pubblicità. Google, che ha un’intelligenza emotiva che sfiora la cifra tonda di zero – si dice perché sia in mano agli sviluppatori – ha deciso di raccogliere i dati dell’utente dei differenti servizi in un unico dossier, quando prima erano invece catalogati in base al servizio. Si tratta di una nuova politica sulla privacy, da cui l’utente non può esimersi se non privandosi dei servizi, che è sabbia negli occhi ai legislatori europei e non solo. Nonostante le altisonanti dichiarazioni di Eric Schmidt, presidente di Google, sull’imprescindibilità del “consenso”, i dati personali raccolti dai droni telecomandati di Google, che si muovono come degli ectoplasmi trangugia-dati, hanno ancora l’odore acre dei dossier fabbricati dal KGB. È il prezzo del gratis.

Per Apple il discorso è differente. Così com’era paranoico con la propria vita privata, Steve Jobs lo era anche con i dati che Apple prendeva dai propri clienti. Quei dati non possono essere divulgati in alcun modo, anche se ciò significa perdere delle ottime opportunità di business. Isaacson racconta di una conversazione con Jeff Bewkes, CEO di Time Warner (pagina 543 dell’edizione italiana) in cui diceva di essere disposto, diversamente dagli altri editori USA, ad accettare la commissione del 30% dell’App Store sugli abbonamenti, ma non il fatto che Apple non avrebbe condiviso i dati degli abbonati. Jobs tagliò secco: «Non posso fornire le informazioni sugli abbonati, è la politica di riservatezza della Apple (in inglese “Apple privacy policy”)». E la cosa sfumò. Ma Jobs i soldi li faceva da un’altra parte e quindi poteva permettersi il “beau geste”, anche se per la Apple certe cose hanno un senso davvero.


Scenari futuristici

La Commissione europea si è mossa, i governi europei si stanno muovendo, ma si sta parlando di pachidermi, come ama raffigurarli la stampa anglosassone. La faccenda della privacy, e tutto quello che le gira intorno, è nelle mani delle persone. Gli utenti attivi dei social media possono chiedere e ottenere che i profitti generati dai dati personali e dalle loro attività siano condivisi e non meramente distribuiti agli azionisti. Sarà un calcolo molto difficile da fare, ma qualche analista ci sta già lavorando. Saranno i 121 dollari l’anno per utente stimati da Darika Ahrens di Forrester Research? Sia quel che sia, le grandi balene del web possono snobbare i governi, ma non gli utenti, che sono la loro “benzina”. Come ha giustamente scritto su Repubblica Riccardo Staglianò, acuto osservatore di questi fenomeni, un giorno Facebook dovrà pagarci per il “Mi piace” e Google dovrà versare qualcosa per tracciare la navigazione. È questa l’opinione anche di Kevin Kelly, espressa in un commentatissimo post su Google+.

Il farsi pagare è troppo materialistico, è insopportabilmente dozzinale? Le persone hanno anche un’opzione più “spirituale”, possono scegliere l’oblio. All’epoca dei mass media era la notorietà il mantra dell’esistenza. Che la scomparsa sia invece il sentimento prevalente all’epoca dei social media? Come grida Walt Kowalski, “Get off my lawn!”, ma il fucile spianato non ci sarà più... ci sarà solo un piccolo pulsante: “Cancella”.

Lettura consigliata: Viktor Mayer-Schönberger, Delete: The Virtue of Forgetting in the Digital Age, Princeton University Press, 2011. Kindle edition, € 10,38

Il Signor Mac Buck

12 aprile 2012

Progettare un libro digitale: gli arnesi e le abilità del mestiere

Abbiamo interrogato "l'esperto del settore". Sì, lui, il signor Mac Buck, minatore del web, architetto e artigiano del libro a stampa e digitale. 
Età dichiarata: 19 anni appena compiuti e almeno 30 passati nelle tempestose acque dell'editoria.


Partiamo da due casi concreti: progettare un libro digitale ex novo e progettare la versione digitale di un libro a stampa già esistente e di cui si conservano gli archivi. 

La prima decisione da prendere in entrambi i casi riguarda il modo in cui l’ebook deve essere servito al lettore: può essere reflowable o deve (dico deve) essere a layout fisso? Se è narrativa, saggistica o manualistica professionale, il reflowable basta e avanza; se è un manuale scolastico, un libro per bambini o un volume illustrato, beh allora occorre un pensierino in più e un budget almeno a 5 cifre se non 6. Anche per il reflowable le cose non sono poi così facili. C’è da decidere se farlo “poverello” o se farlo “enhanced”. Adesso con il Kindle Fire, neppure i lettori che seguono la predicazione di Jeff Bezos si accontentano del saio e dei sandali.
Se poi c’è un esemplare a stampa, il primo impulso è quello di farlo tal quale in digitale come se un umano leggesse meglio su una parete di vetro quale è il video che su un pezzo di carta. Certo nel film Sideways si vede il protagonista che beve un Sassicaia d’epoca nel bicchiere di carta del McDonald, piuttosto che in un bel calice di vetro. Si può fare tutto e ne ho sentite tante, ma ancora nessuno che va in giro a fare questi sermoni.

Quali suggerimenti daresti al team di sviluppo?

Lo dico con le parole del team iBooks della Apple “Surpass the print experience”. Non c’è bisogno di tradurlo, sembra l’11° comandamento! Se non ce lo ordina proprio il dottore, cerchiamo di non fare un clone del libro a stampa. Ci sono tanti piccoli-grandi accorgimenti per migliorare la lettura nell’ebook. Per esempio non c’è più il vincolo della foliazione, siamo quindi generosi con l’interlinea, gli stacchi, gli spazi, le spezzature, le paragrafature, i colori, sì i colori. La stitichezza è finita, colora le parole! La leggibilità è una cosa che è andata perduta sulla carta per via delle costrizioni economiche, ma sul digitale le prigioni del bisogno non ci sono più. È il vero trionfo della volontà sulla necessità!
Poi ispiriamoci a Wikipedia. Non abbiamo bisogno di Roland Barthes. La lettura digitale ha bisogno di link per farci spaziare (non per constringerci) da un contesto a un altro. È inoltre sincopata: la cementificazione del testo è finita! Abbasso il piombo! Molti fanno “puah”, aborrendo la distruzione della lettura, della concentrazione, dell’immersione e via dicendo. E hanno ragione. Ma questa è anche lettura “antica”, rispettosamente antica di quelli che i semiologi chiamano “immigrati digitali”. Un recente studio sui comportamenti dei lettori nativi digitali ci fa vedere quanto questi siano istintivamente erratici, iniziano a leggere da un punto qualsiasi e poi saltano da un contesto a un altro come la pallina magica. Che avranno capito? Boh. Eppure tra quei ragazzi c’è il prossimo Einstein. Gli editori pensano che stare abbarbicati alla forma libro gutemberghiana sequenzial-immersiva sia la loro missione, ma pare il castello errante di Howl nel film di Miyazaki… sempre lì per cadere.


Quali peculiarità del libro digitale occorre tener presenti?

Gli editor della Random House, la più grande casa editrice del mondo, hanno una griglia di valutazione istituzionalizzata per valutare un contenuto oltre il suo valore intrinseco. La proprietà della Random House è tedesca e quindi ci possiamo scommettere che le cose sono fatte seriamente. L’80% dei quesiti presenti in questa griglia riguarda la possibilità di spalmare questo contenuto su tutti i mezzi di distribuzione del pianeta, la maggioranza dei quali sono digitali. Ci sono domande del tipo: “In che misura il contenuto si presta ad essere arricchito con video e audio?”; “Ci sono nella legacy della casa editrice contenuti multimediali da poter essere associati al contenuto principale”; “È disposto l’autore a lavorare per estensioni dirette ai nuovi media?”. Tutto questo è confortante perché vuol dire che gli editori non dormono e che qualcuno tiene il pallino e forse i nuovi padroni dell’editoria non saranno né Amazon né Google, genere di commercianti e pubblicitari che usano il contenuto come un contenitore. Agli sviluppatori pertanto consiglio di cercare su Internet questa griglia e di iniziare a riempirla con diligenza tedesca.

Parliamo di Fixed Page Layout, una soluzione molto adatta ai libri d’arte, di cucina, ai libri illustrati e ai fumetti. Gli esiti però sono spesso deludenti poiché i libri risultano poco leggibili. Perché?

Fixed Page Layout è strepitoso perché, nel conservare la tipografia al suo più alto livello, va oltre verso un prodotto veramente sincretico. Questa tecnologia è un mezzo non un fine. Se diventa un fine, dà luogo ad errori. Delle volte si vedono degli errori di progettazione che derivano da una specie di totemmizzazione del mezzo. Non dobbiamo mai dimenticare che la nostra pagina digitale ha una dimensione 17x24 centimetri che è un formato che difficilmente sceglieremmo per un libro illustrato perché è troppo angusto. Se un grafico lo proponesse ad Electa, sarebbe “fired!” nella migliore tradizione di Steve Jobs. In una pagina così piccola ci vogliamo mettere troppa roba memori del libro. Quando l’iPad va in orizzontale, la pagina diviene la veduta della Valle d’Aosta dal Monte Bianco. Perché si fanno questi errori? Perché in testa abbiamo ancora il libro o abbiamo il libro sotto gli occhi quando montiamo l’ebook o il nostro capo ci dice “fallo uguale”.


Tra gli attrezzi del mestiere quali ritieni in questo momento irrinunciabili?

Se non hai un iPad con retina display, una passeggiata al parco può essere un impiego migliore di tempo. Poi bisogna guardare moltissimo quello che fanno gli sviluppatori/editori degli altri Paesi: francesi, tedeschi, inglesi, genti dove il libro connota la civiltà.


Guardare il libro e andare oltre. Quali abilità l’ebook developer deve a tuo avviso sviluppare?

Un buon libro digitale nasce da quattro competenze che si congiungono: il visuale, il paroliere, il codificatore e l’uomo delle vendite. La prima cosa che uno di questi soggetti deve fare è cercare gli altri tre. È come i Beatles, se si dividono non ci sono più i FAB FOUR.