Il Gufo Rosa

Il Gufo Rosa
Sui libri digitali e non (e altre diavolerie)

24 gennaio 2012

L’industria dei media nell’agone della rivoluzione dei dispositivi mobili

Prosegue l'immersione del signor Mac Buck nell'industria dei media. Dalla ridotta di Dunkerque all'arena dei gladiatori, un viaggio – fatto di dati, esperienze, analisi e considerazioni – nelle evoluzioni mobili del mercato dei media.


L’industria dal 2009 al 2011

Alla fine del 2009 tutta l’industria dei media sembrava inesorabilmente proiettata verso un altro decennio torrido, non tanto per il calo della crescita dei consumi in E&M (Media & Entertainment, ndgr) che registrava –30% in quattro anni, quanto per le prospettive: all’orizzonte andavano prendendo forma i quattro cavalieri dell’apocalisse con i loro cartigli che recavano ciascuno una ben leggibile sentenza:
  1. impossibilità di vendere contenuti sul web, l’unico mezzo di distribuzione digitale disponibile all’epoca;
  2. insufficienza della pubblicità online, modello di business unico e universale; un’offerta assolutamente al di sotto della domanda dell’industria costituita;
  3. flessione irreversibile del business tradizionale per la concorrenza del web verso cui si indirizzavano i consumatori; evoluzione che trovava del tutto impreparati gli executive media quanto ai suoi esiti a lungo termine;
  4. pirateria che stava erodendo le potenziali risorse provenienti dal web e, soprattutto, minando le basi di qualsiasi approccio basato sul pagamento dei contenuti. Contro il gratis non ci può essere concorrenza.
Tutta l’industria sembrava l’esercito alleato nella ridotta di Dunkerque nel maggio del 1940. La confortevole zona delle certezze condivise sembrava sgretolarsi di fronte a queste prospettive. I risultati di questa indagine condotta in cinque paesi dell’area OCSE dalla multinazionale di consulenza Bain & Company sul sentiment dei consumatori nei confronti dei contenuti su Internet, è la migliore istantanea degli angosciosi interrogativi di quel periodo. Ma, come accadde a Dunkerque,  un evento miracoloso arrivò in soccorso all’industria restituendo morale e voglia di combattere.



L’inversione di tendenza

Dal 2009 in poi l’avvento dei dispositivi mobili ha iniziato a cambiare profondamente e irreversibilmente non solo lo scenario dei media ma quello di tutta la tecnologia fino allora dominata dal personal computer. Ne è un’attestazione il fatto che lo stesso campione di consumatori che aveva dichiarato a Bain & Company la propria indisponibilità a pagare contenuti su Internet, ribaltava completamente il proprio punto di vista se interrogato con lo stesso quesito riguardo ai dispositivi mobili e in particolare ai tablet.


Il consolidarsi di questo scenario negli anni successivi ha portato anche a un mutamento nel sentiment degli operatori del settore e degli investitori verso il comparto media: da quella di un lazzaretto a quella di un luogo dove è servito un bel pezzo di torta.
Il big bang non c’è dunque stato: le reti televisive sono sempre a portata di telecomando e sullo schermo continua a scorrere abbondante la pubblicità, la Tv via cavo ha avuto degli anni grandiosi, grandi “octopus” come Time Warner e The News Corporation hanno continuato a inghiottire utili e sono tornati baldanzosi. Pure i quotidiani sono sopravvissuti al diluvio e il New York Times è anche riuscito a piazzare un cospicuo numero di abbonamenti alle sue versioni digitali mosse cautamente dietro una paywall. I grandi gruppi media possono ancora fare affidamento su ben fortificati patrimoni che si chiamano notorietà del marchio, distribuzione efficiente e grandi capitali. Ecco che sembra tornare attuale il vecchio truismo sui media quando asserisce che il contenuto indossa sempre la corona e che i grandi marchi torreggiano arditamente sopra il polverone sollevato dall’andirivieni dei sudanti sfidanti. Sono i grandi animali della foresta.

Anche se le antiche certezze hanno tenuto e il cielo non è caduto, nell’aria c’è molta ansietà di nuovo. L’inerzia che ha trattenuto i consumatori dal migrare più velocemente al digitale sta assottigliandosi nella misura in cui anno dopo anno cresce una nuova generazione di consumatori che vuol forgiare il proprio modo di consumare i prodotti E&M. In questa vignetta di Dan Summers apparsa sul New York Times del 1 gennaio 2012 si specchia questo zeitgeist.


Ecco che distributori digitali di contenuti, i motori di ricerca e addirittura i costruttori di dispositivi stanno lanciandosi in questo spazio che è ancora il livello più basso del mercato. Questi nuovi soggetti tecnologici stanno affrettandosi a produrre contenuti propri in modo tale da cucirli addosso a questa nuova utenza. Non saranno buoni come quelli tradizionali, ma funzionano. Anche perché il cloud, la nouvelle vague tecnologica, semplifica enormemente l’accesso ai prodotti come film, musica, video e libri e spinge potentemente il consumatore a varcarne la soglia, fosse solo per curiosità. Queste sono notizie che i grandi gruppi media e l’industria costituita ascoltano con crescente irritazione.

Dove si consumeranno i prodotti E&M e come?


Si consumeranno sullo schermo di un dispositivo mobile (tablet, smarthphone, e-reader) dal cloud per mezzo delle applicazioni. Il mobile sta diventando il mezzo di accesso primario ai contenuti digitali. In Giappone già oggi l’80% dell'accesso a Internet avviene attraverso questo mezzo. In Corea 20 milioni di persone guardano la Tv da un dispositivo mobile. Giappone e Corea sono i mercati dove la banda larga arriva rispettivamente al 90 e al 70% della popolazione. Anche l’Europa marcia a una buona velocità: Thomas Husson, un analista di Forrester Research, stima che nel 2016 il 54% dell’accesso a Internet nel vecchio continente avverrà da un dispositivo mobile.
Secondo Larry Kilman, della World Association of Newspapers and News Publishers, dei quasi 50 milioni di iPad venduti nel 2011 una buona parte sono stati acquistati da consumatori abituali di prodotti media. Il mobile computing, come mostra questo grafico, è il settore con il più alto tasso di crescita dell’intero comparto tecnologico.


 

Morgan Stanley, la potente banca d’investimento, valuta che nel 2011 le vendite combinate di smartphone e tablet abbiano superato quelle di personal computer. Le stesse vendite di Netbook, la risposta dei costruttori di PC alle esigenze di mobilità, si sono a tal punto assottigliate nel 2011 da far titolare il Financial Times «Computers: end of story for netbooks». Le speranze di rilancio dei produttori di personal computer e di Intel, fornitore del microprocessore Atom e per ora ai margini della rivoluzione del mobile, si rivolgono ai super-leggeri ultrabook. Secondo una stima di TrendForce, gli ultraleggeri sosterranno lo sviluppo dei notebook, un segmento che nel periodo 2012-2015 incrementerà le vendite del 13,3% a fronte di un calo dei netbook del 17%. Si ritiene che il lancio di Windows 8 a metà 2012 contribuirà a questa crescita in modo decisivo. Nel 2015 ci saranno circa 300 milioni di notebook di cui un terzo ultrabook.
Alla stessa data, secondo Gartner, ci saranno nelle mani degli utenti di tutto il pianeta un numero analogo di tablet, circa 325 milioni di cui poco meno della metà iPad, anche se la rimonta dei dispositivi basati su Android fa dubitare di questa previsione così favorevole ad Apple.


Per esempio, nei mesi che ne hanno seguito il lancio, il Kindle Fire, nonostante le cattive recensioni e le riconosciute manchevolezze, ha venduto più di un milione di unità ogni settimana frantumando qualsiasi precedente record di vendite. Segno abbastanza evidente dell’appetito del mercato verso questo tipo di pietanze, ancor meglio se a basso costo.
Quello che è successo nel 2011 però non è senza significato. La spiegazione getta una luce finalmente diurna su come funzioneranno le cose in questo comparto. Nonostante le sfide lanciate da colossi come HP con l’attesissimo TouchPad, RIM con il PlayBook e da oltre 20 costruttori asiatici, l’iPad  copre il 70% del mercato. Gli unici dispositivi che hanno prodotto un percepibile ammacco in questa corazza d’Achille sono stati il NookColor prima e, con maggiore penetrazione, il Kindle Fire dopo; due dispositivi con uno schermo da 7 pollici, piuttosto primitivi come design e tecnologia.

Perché nel comparto dei tablet nel 2011 non è successo quello che è accaduto in quello degli smartphone dove Android e i costruttori di dispositivi concorrenti all’iPhone si sono aggiudicati il 50% del mercato, abbattendo l’egemonia Apple e la sicumera degli executive di Cupertino? Perché non è si è ripetuto lo stesso schema con i tablet?
La prima spiegazione è il prezzo, ma non ci porta molto lontano nella comprensione. Secondo una indagine di Retrevo, un portale di elettronica di consumo, i consumatori non sono disposti a spendere più di 250 dollari per un tablet che non sia iPad. Ciò spiega la ragione del relativo successo di NookColor e di quello più pieno del Kindle Fire, entrambi al di sotto dei 250 dollari.
Perché mentre acquistano device non iPhone ad oltre 500 dollari i consumatori non sono disponibili a spenderne altrettanti per un tablet di qualità che non sia un iPad? Con uno smartphone acquistano un telefono (che i carrier rendono appetibile tramite offerte combinate con piani di abbonamento) oltreché una finestra su un mondo di contenuti. Con il tablet acquistano solo una finestra sui contenuti senza alcuna agevolazione tariffaria: il tablet è totalmente ancillare ai contenuti.
Se questi ultimi non ci sono, diviene una finestra sul cortile o un specchietto portatile per sistemarsi la pettimatura. I contenuti devono poi essere ricchi, assortiti, coinvolgenti e offerti senza intoppi o complicazioni, serviti direttamente dalla “nuvola”.

Quale costruttore presenta questa combinazione tra piattaforma di contenuti e tablet? Apple, Amazon e Barnes & Nobles, la più grande libreria del mondo. L’abilità nel vendere i contenuti fa quindi la differenza nel mondo dei tablet. Il resto ha un valore complessivamente limitato. Affacciarsi sullo schermo di un tablet è divenuto l’obiettivo di chiunque abbia un contenuto tradizionale o interattivo che sia. In questa ottica il modello di business di tutti i produttori di contenuti, sia che si tratti di News Corps o Disney o Hulu o Hachette, è lo stesso: assicurarsi uno spazio su un video.
L’interesse di tutta l’industria dell'intrattenimento e dei media è che questi dispositivi mobili finiscano nelle mani del maggior numero di persone così da potervi immettere i contenuti che l’industria produce. E questo succederà. Succederà anche nel mondo delle professioni e del lavoro: secondo un’indagine pubblicata nel maggio 2011 da Manhattan Research, una società di ricerca nel campo medico-sanitario, il 30% dei medici USA possiede un iPad e il 75% possiede un qualche device Apple iOS (iPhone, iPod, MacAir). La penetrazione degli smartphone in ambito medico dovrebbe aver raggiunto l’80% a fine 2011.

Il cloud alla base dell’ubiquitous computing


Nel 2015, secondo PwC, saranno quasi un miliardo e trecento milioni le persone che useranno uno strumento mobile continuamente connesso per fruire contenuti digitali “via cloud”; contenuti quindi raggiungibili in ogni momento e ovunque da tutti i dispositivi profilati con l’account della persona. Per questa realtà, che non è più fantascienza, è stato coniato il neologismo “ubicomp” che sta per “ubiquitous computing” per il quale esiste un’abbondante voce di Wikipedia.

Il cloud è un driver fondamentale per spiccare un salto triplo non solo tecnologico ma nel modello distributivo pervasivo e di tariffazione. Gli ecosistemi di Amazon Kindle, Apple iCloud, Netflix e Google Apps, il pioniere di questo servizio, hanno reso il cloud qualcosa che è tra di noi. Il cloud incrementerà in modo inimmaginabile la fruizione di prodotti media perché l’utente è spinto a essere molto più attivo dalla semplicità della cosa e dall’abbondanza dell’offerta. Per esempio, Netflix offre l’accesso al suo servizio attraverso 700 differenti dispositivi. Inoltre ci saranno molte opzioni per fruire questo contenuto: l’utente potrà acquistarlo e incamerarlo, oppure potrà noleggiarlo, affittarlo, utilizzarlo a tempo e a porzioni, condividerlo in gruppi d’acquisto o d’interesse e via dicendo di questo passo. Si avrà un vero e proprio mutamento di atteggiamento nel modo di “vivere” i contenuti che allietano lo spirito o lo elevano verso nuove conoscenze. In uno scenario neanche troppo lontano, saranno i contenuti stessi a raggiungere l’utente sulla base del luogo dove si trova, dell’attività che sta svolgendo e, perché no, di quello che sta desiderando in quel preciso momento.
I contenuti saranno fruiti attraverso applicazioni specifiche ottimizzate e ingegnerizzate per fare quel lavoro rapidamente e bene con quel piccolo plus che è la gratificazione istantanea dell’acquirente che è il motore del passaparola, il mantra del marketing. Per il costo di un espresso divertono e fanno risparmiare tempo, due risorse limitate in tempi moderni.

Beninteso le applicazioni, il modo per raggiungere i contenuti, non sono né in contrapposizione né in alternativa al web classico. Ne sono semplicemente un suo sviluppo in tempi di ubiquitous computing. Anzi il web classico è sinergico alle applicazioni poiché fornisce la materia prima per la trasformazione di un contenuto o di un servizio in prodotto di consumo moderno. Le applicazioni poi viaggiano sulla stessa infrastruttura del web e possono anche essere tecnologia web standard come dimostra la nuova ondata di web apps, non ancora in piena fioritura, ma sicuramente un fenomeno che si farà sentire anche come risposta all’hortus conclusus delle piattaforme proprietarie di distribuzione. Basta pensare all’operazione che ha compiuto il Financial Times dove la web app non solo offre la stessa “user experience” dell’applicazione presente sui vari store, ma è più integrata con l’universo di servizi e contenuti del grande quotidiano finanziario. La web app non è affatto una scelta difensiva nei confronti delle piattaforme, ma un nuovo modo di fare web sotto il cielo del mobile computing. Certo la web app risponde a un’esigenza di ordine e focalizzazione all’interno del web scapigliato, caotico e frastornante cresciuto come un “mucchio selvaggio”.

La milionesima applicazione


L’11 dicembre 2011 il New York Times ha annunciato la pubblicazione della milionesima applicazione per un dispositivo mobile presentando così la notizia: «Ogni settimana nel mondo escono 100 film e 250 libri contro 15.000 applicazioni per dispositivi mobili. Ogni giorno sono pubblicate 543 applicazioni per Android e 745 per Apple iOS». Durante la settimana di Natale 2011 sono state scaricate un miliardo e 200 milioni applicazioni secondo Flurry, che analizza le tendenze del mercato mobile. Poco meno della metà sono state scaricare dagli USA (ben 510 milioni di unità) seguono molto distanziate la Cina con 100 milioni e il Regno Unito con 80. Francia e Germania guidano ex-aequo la classifica dell’Europa continentale con 40 milioni di applicazioni scaricate seguite dall’Italia con 25 milioni che fa meglio del Giappone, un paese dove il fenomeno si è sviluppato di meno di quanto si potrebbe pensare. Il grafico dei download di app durante la settimana natalizia elaborato da Flurry è una fonte capitale per comprendere la dimensione del mercato delle app in particolare nei paesi di cultura e tradizione anglo-sassone. Un dato diffuso sempre da Flurry è ancora più importante delle brute metriche sui download delle app: la gente trascorre più tempo all’interno delle applicazioni che sul web.



















Flurry stima in un’ora e mezzo al giorno il tempo medio dedicato a consultare le applicazioni contro un’ora e 12 minuti passato sul browser per navigare in Internet. In appena un anno si sono capovolti i rapporti di forza tra il web e le applicazioni sull’indicatore più pesante per misurare un trend, quello appunto del tempo dedicato a un’attività.

Una cornucopia di applicazioni, quindi. Nel valutare questo sbalorditivo fenomeno, occorre considerare che prima del 10 luglio 2008, giorno di apertura dell’AppStore, niente di questo neppure esisteva. Il suo precorritore, le Google Apps, era comparso appena due anni prima, mentre il suo antesignano più prossimo, lo sviluppo di applicazioni di terze parti sulla piattaforma Facebook, aveva visto la luce il 24 maggio 2007. Alla luce di queste date è veramente strabiliante quello che è accaduto nell’arco di pochi anni anche per i connotati economici che ha già assunto. Nel 2015 la spesa in applicazioni varrà 35 miliardi di dollari con un CAGR 2011-2015 del 38%. Questa evoluzione ha un’enorme importanza per l’industria dell'intrattenimento e dei media perché gran parte delle applicazioni offre soluzioni per fruire prodotti di questo tipo come prova questo grafico sulla distribuzione delle app per categoria merceologica.


Tale «crescita esplosiva», per usare le parole degli esperti di PwC, non è scevra da problemi: il mercato delle applicazioni è frammentato, gli store di app sono dei bazaar e l’assenza d’interoperabilità tra le varie piattaforme costringe gli editori a produrre differenti versioni per ogni applicazione.


Inoltre questo nuovo mercato sussume e amplifica tutte le logiche negative degli altri mercati digitali come:
  1. la concorrenza accanita e brutale che innalza enormemente le barriere d’ingresso penalizzando le start-up e gli sviluppatori a vantaggio dei soggetti che hanno maggiori risorse per proporre app con un’accresciuta “user experience”;
  2. la rapidissima migrazione degli utenti verso nuovi gusti che accresce il tasso di rotazione delle classifiche con conseguente perdita di visibilità, declino nei download e riduzione delle aspettative di vita delle app a quelle di un bruco;
  3. la tendenziale irrilevanza dei brand che cede lo scettro alla nozione di “user experience” nella reminiscenza degli utenti;
  4. la diluizione dei contenuti di qualità con quelli triviali, un fenomeno dalle conseguenze profonde;
  5. le bande di detrattori professionisti e di recensori prezzolati che alterano il genuino giudizio del pubblico sul valore delle app; 
  6. lo strapotere dell’utente che con un segno del pollice può decidere la sorte del prodotto come Commodo quello dei gladiatori che combattevano nell’arena sognando un nuovo Spartaco.
Per gli editori/gladiatori la vita è dura se non impossibile, ma c’è un vantaggio che non deve sfuggir loro neppure per un momento: possono decidere un prezzo per i contenuti e, anche se devono spartirlo con la piattaforma, hanno la possibilità di fuggire dalla logica del “gratis e basta” che vige sul web. «Uno dei lasciti di Steve Jobs è di averci insegnato a pagare per i contenuti» afferma Adam Bird, direttore di McKinsey & Company. E non è un caso che questa rivoluzione l’abbia avviata proprio il compianto co-fondatore di Apple.


Il signor Mac Buck


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