Il Gufo Rosa

Il Gufo Rosa
Sui libri digitali e non (e altre diavolerie)

22 febbraio 2012

Applicazioni a gogo

Il mucchio selvaggio dell’app economy raccontato e analizzato dal signor Mac Buck.


La milionesima applicazione
L’11 dicembre 2011 il New York Times ha annunciato la pubblicazione della milionesima applicazione per un dispositivo mobile in questo modo: «Ogni settimana nel mondo escono 100 film, 250 libri e ben 15.000 applicazioni per dispositivi mobili. Ogni giorno vedono la luce 543 applicazioni per Android e 745 per Apple iOS». Durante la settimana di Natale 2011 sono state scaricate un miliardo e 200 milioni applicazioni secondo Flurry, che analizza le tendenze del mercato mobile. Poco meno della metà sono state scaricare dagli USA (ben 510 milioni di unità) seguono molto distanziate la Cina con 100 milioni e il Regno Unito con 80. Francia e Germania guidano ex-aequo la classifica dell’Europa continentale con 40 milioni di applicazioni scaricate seguite dall’Italia con 25 milioni che fa meglio del Giappone, un paese dove il fenomeno si è sviluppato di meno di quanto si potrebbe pensare.


Il grafico dei download di app durante la settimana natalizia elaborato da Flurry è una fonte capitale per comprendere la dimensione del mercato delle app in particolare nei paesi di cultura e tradizione anglo-sassone. Un dato diffuso sempre da Flurry è ancora più importante delle brute metriche sui download delle app: la gente trascorre più tempo all’interno delle applicazioni che sul web. Flurry stima in un’ora e mezzo al giorno il tempo medio dedicato a consultare le applicazioni contro un’ora e 12 minuti passato sul browser per navigare in Internet.


In appena un anno si sono capovolti i rapporti di forza tra il web e le applicazioni sull’indicatore più pesante per misurare un trend, quello appunto del tempo dedicato a un’attività. Anche relativamente al traffico dati sulla rete il mobile è in fuga: il 55% viene generato proprio da dispositivi mobili contro il 45% da portatili e dei computer da scrivania.
Una cornucopia di applicazioni, quindi. Nel valutare questo sbalorditivo fenomeno, occorre considerare che prima del 10 luglio 2008, giorno di apertura dell’AppStore, niente di questo neppure esisteva. Già Palm con la versione Palm OS 5.2, nel lontano 2002, aveva reso possibile lo sviluppo di applicazioni di terze parti sul proprio sistema, aprendo, come in molti altri casi, la strada a questa grande innovazione. Era stato però con Facebook, già dal maggio 2007, che l’idea di una piattaforma sulla quale creare un ecosistema di applicazioni aveva assunto dimensioni ragguardevoli contribuendo a farne quell’enorme recinto di servizi e relazioni che è oggi. Deloitte ha valutato che l’economia delle app sulla piattaforma Facebook abbia prodotto nei paesi dell’Unione europea un valore di oltre 2 miliardi di euro con un contribuito rilevante all’occupazione giovanile delle claudicanti economie europee. TechNet, un’organizzazione di lobbying su temi tecnologici, ha stimato in 500 mila posti di lavoro il contributo dell’economia della app al mercato del lavoro USA: succo di acero per l’amministrazione Obama, in crisi di risultati su questo fronte.
Alla luce di questa timeline e di questi dati, in verità da prendere con lunghe pinze, è veramente strabiliante quello che è accaduto nell’arco di pochi anni anche per i connotati economici che ha già assunto. Nel 2015 la spesa in applicazioni varrà 35 miliardi di dollari con un CAGR 2011-2015 del 38%. Gartner alza la stima a 58 miliardi. Si può quindi parlare a tutti gli effetti di economia delle app e di un vero e proprio comparto E&M. Infatti questa evoluzione ha un’enorme importanza per l’industria dello spettacolo e dei media perché grande parte delle applicazioni offre soluzioni per consumare prodotti di questo tipo come prova il grafico sulla distribuzione delle app per categoria merceologica.


Tutto bene allora?
No, affatto! La «crescita esplosiva dell’app economy», per usare le parole degli esperti di PricewaterhouseCoopers, non è scevra da altri giganteschi problemi strutturali: il mercato delle applicazioni è frammentato, gli store di app sono dei bazaar e l’assenza d’interoperabilità tra le varie piattaforme costringe gli editori a produrre differenti versioni per ogni applicazione.



Inoltre questo nuovo mercato sussume e amplifica tutte le logiche negative degli altri mercati digitali come:

  1. la concorrenza accanita e brutale che innalzata enormemente le barriere d’ingresso penalizzando le start-up e gli sviluppatori a vantaggio dei soggetti che hanno maggiori risorse per proporre app con un’accresciuta “user experience”. Tutto sta nel riuscire a farsi ascoltare sopra un assordante rumore di fondo. 
  2. la rapidissima migrazione degli utenti verso nuovi gusti che accresce il tasso di rotazione delle classifiche con conseguente perdita di visibilità, declino nei download e riduzione delle aspettative di vita delle app a quelle di un bruco;
  3. la tendenziale irrilevanza dei brand che cede lo scettro alla nozione di “user experience” nella reminiscenza degli utenti;
  4. la diluizione dei contenuti di qualità con quelli triviali, un fenomeno dalle conseguenze profonde che potremmo iscrivere in una deriva post-pop il cui Andy Wahrol si deve ancora vedere;
  5. le bande di detrattori professionisti e di recensori prezzolati che alterano il genuino giudizio del pubblico sul valore delle app; 
  6. lo strapotere dell’utente che con un segno del pollice può decidere la sorte del prodotto come l’imperatore Commodo quello dei gladiatori che combattevano nell’arena sognando un nuovo Spartaco. 

Per gli editori/gladiatori, e ce ne sono 135 mila solo negli USA secondo il sito specializzato 148apps.biz, la vita è dura se non impossibile, ma c’è un vantaggio che non deve sfuggirli nella frustrazione del momento: possono decidere un prezzo per i contenuti e, anche se devono spartirlo con la piattaforma, gli è stata restituita la speranza di fuggire dalla logica del “gratis e basta” che vige sul web. «Uno dei lasciti di Steve Jobs e di averci insegnato a pagare per i contenuti» afferma Adam Bird, direttore di McKinsey & Company. E non è un caso che questa rivoluzione l’abbia avviata proprio il compianto co-fondatore di Apple. Non si fanno comunque dei grandissimi affari con le app a pagamento. Su AppStore, che è la piattaforma di gran lunga più redditizia, il 91% delle app costa meno di 5 dollari e per fare un fatturato ragionevole occorre farle scaricare decine di migliaia di volte.

Tante apps, pochi vincitori
«Con l’offerta mondiale di applicazioni in crescita esponenziale, la parte acquistata o scaricata da qualcun’altro che non sia lo sviluppatore e i propri familiari può divenire ancor più esigua. Anche restringendo le analisi alle applicazioni prodotte da brand famosi, solo il 20% sono scaricate più di mille volte». Solo l’uno per cento di queste ultime può vantare più di un milione di download. Questa è la sentenza piuttosto dura degli esperti di Deloitte sull’ecosistema delle applicazioni per mobile contenuta in un report dal titolo sconcertante “So many apps — so little to download, che segue un rapporto precedente anch’esso piuttosto avvilente “Killer Apps? Appearance isn’t everything”. Le app gratuite restano all’apice del gradimento degli utenti e nel 2011 hanno totalizzato il 96% dei download seconda una indagine condotta da IHS iSuppli, una società di consulenza nel campo della comunicazione. Gartner valuta in 81% la quota di downolad delle app gratuite.
Anche gli sviluppatori indipendenti e gli editori, che hanno abbracciato con ammirevole entusiasmo questo nuovo mercato, si sono resi conto che il cammino è in salita piuttosto che in discesa e che far scaricare un’app, foss’anche gratuita per non parlare di pagare, può essere uno sforzo di Sisifo. Più il catalogo delle applicazioni cresce più incolmabile diviene il distacco tra pochi blockbuster in fuga e il gruppone dei gregari che insegue affannosamente. Malgrado questa situazione che colpisce i produttori, paradossalmente, il numero di applicazioni continuerà a crescere: nel 2012 saranno 2 milioni e nel 2013 il catalogo potrebbe raggiungere i 4 milioni. Questa crescita è trainata dalle aspettative generate dalla crescita stellare dei dispositivi mobili, dall’arrivo di nuovi sistemi operativi introdotti da player robusti, dalla domanda dei paesi emergenti e dalla necessità di alimentare di contenuti il mercato degli smartphone da 100 dollari che andranno a sostituire i telefonini basici in uno spazio brevissimo di tempo.
A questo proposito scrivono gli esperti di Deloitte: «Per raggiungere il 90% degli utenti, uno sviluppatore dovrà creare una specifica versione dell’applicazione per ognuno dei cinque sistemi operativi (più HTML5), nelle cinque principali lingue, per almeno tre distinte prestazioni del processore e per quattro diverse dimensioni dello schermo. Detto altrimenti, saranno necessarie 360 varianti della stessa applicazione per coprire dignitosamente il mercato globale. Ciascuna variante conterà come un’applicazione a sé stante». Non è uno scherzo!
Nei mercati maturi delle app i costi di produzione e di marketing (senza considerare i diritti) di un’applicazione sono enormemente cresciuti nel 2011 e saliranno ulteriormente nel 2012 con punte che possono arrivare a sfiorare le sette cifre, tanto il Wall Street Journal ha valutato il costo dell’applicazione gratuita per iPad “Sting25” che celebra fastosamente i 25 anni di attività del cantante con lo scopo di rilanciare il suo intero catalogo. I tempi eroici dello sviluppatore che scrive la propria app tra la mezzanotte e le sei del mattino e questa finisce tra le prime 10 in classifica sono finiti, come l’epico west è scomparso con la ferrovia. Il mercato è divenuto professionale e sempre più dominato dalle organizzazioni che controllano i contenuti e hanno capacità d’investimento per ottenere l’attenzione dei consumatori. Il modello dello sviluppatore solitario chino al tavolo della cucina potrebbe ancora funzionare nei mercati in via di sviluppo dove l’ecosistema è ancora nella sua infanzia.

Perché il 90% delle app sono un flop?
La carestia dei download non significa che il modello di business delle applicazioni è fallace o non sostenibile, significa una cosa diversa. Non foss’altro che abbiamo già alcuni fortunati “millionaire” (per il bi- occorre aspettare ancora un po’) dell’ecosistema apps e molti altri hanno già acquistato una Porsche Carrera nera a rate. Significa piuttosto che il modello di business nei mercati maturi, come lo è anche l’Italia, è quello di Hollywood o del poker, il vincitore prende tutto il piatto delle banconote, agli altri spartiscono le monetine. Se il prodotto non funziona nella prima settimana, ma si potrebbe dire nelle prime 48 ore, di uscita non ci sono più assi da giocare. Un meccanismo che gli studios di Hollywood conoscono molto bene. «The winner take it all/The loser standing small … No more ace to play» dice una canzone degli Abba, reinterpretata da Meryl Streep in Mamma Mia, che potrebbe divenire l’inno dell’app economy.
È questa la natura dei mercati digitali dei contenuti dalla musica, al video, ai film, ai talk show. I consumatori vanno dove vanno tutti spinti dai trend che rimbalzano da un blog all’altro dai circoli degli amici e dal porta a porta del chiacchiericcio globale: un conformismo atroce e fors’anche inevitabile di fronte alla vastità dell’offerta. Purtroppo il conformismo è una minaccia maggiore dei derivati finanziari. In questo contesto perde senso anche una teoria consolidata e rassicurante come quella della coda lunga. In questi mercati non c’è nessuna coda lunga: l’80% dei brani musicali non ottiene neppure un download e la stessa cosa succede con le applicazioni, anche se non è possibile ancora dimostrarlo con metriche attendibili.
Perché tante app non riescono ad attrarre alcuna attenzione? La qualità è la prima ragione. Gli utenti si aspettano applicazioni che utilizzino appieno le capacità tecnologiche e le specificità di un device mobile come la gestualità, la voce, il GPS, la videocamera, l’accelerometro, la bussola. Molto spesso vi si ritrovano invece contenuti e modalità traslati dal web o da altrove senza troppe mediazioni e senza alcuna valida implementazione. Il fatto di disporre di un contenuto o di un servizio sempre con sé, nella propria tasca, è un valore importante ma da solo non è più sufficiente senza una più evoluta “user experience”. Anche i device mobili, come gli altri media, hanno sviluppo un proprio linguaggio che si è affrancato dal web come il cinema delle origini si affrancò dal teatro grazie a Georges Méliès. Gli esperti di Deloitte hanno rilevato che l’uso estensivo delle specificità di questi dispositivi può aumentare significativamente le possibilità di successo di un’applicazione. Questo grafico mostra quali fattori possono contribuire a rendere più invitante l’applicazione e di conseguenza determinarne il successo.


La seconda ragione, ci fa sapere Deloitte, è che molte applicazioni mancano il target per il semplice fatto che neppure si pongono il problema. Faccenda inconcepibile il qualsiasi altro mercato. I dispositivi iOS sono in mano a professionisti, colletti bianchi e, non foss’altro per il brainwashing, a persone che pensano di essere un po’ speciali. Confezionare un’app che non centra questo bersaglio, vuol dire disperderla nel mucchio, senz’altro selvaggio. Ecco che cosa scrivono gli esperti di Deloitte a questo proposito: «Bisogna trattare ogni piattaforma come un differente canale, con differenti livelli di coinvolgimento e di demografia e tenere l’orecchio sul terreno per cogliere l’arrivo di novità tecnologiche».
Orecchio sul terreno dunque per sentire arrivare in tempo utile il mucchio selvaggio come il capo indiano in Balla coi lupi. Bisogna avere l’orecchio dentro al secchio.

Il signor Mac Buck


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